L’uomo invisibile del 2020, diretto da Leigh Whannell, è giustamente ricordato come uno dei remake/reboot più riusciti degli ultimi anni. Dopo il fallimentare tentativo di creare un universo cinematografico condiviso – in stile MCU, per intenderci – incentrato sui mostri più celebri della Universal (l’infausto “Dark Universe”, che avrebbe dovuto prendere il via dopo le release di Dracula Untold del 2014 con Luke Evans e La mummia del 2017 con Tom Cruise), la major ha deciso di unire le forze con la Blumhouse – ormai fiore all’occhiello quando si parla di horror ad alto e medio budget – per la realizzazione del lungometraggio interpretato da Elisabeth Moss, dimostrando che i classici mostri della propria scuderia, scolpiti da tempo immemore nell’immaginario collettivo, avevano ancora molto da offrire dal punto di vista narrativo.
Con L’uomo invisibile non solo si è cercato di raccontare una storia che potesse terrorizzare gli spettatori (pur sempre di horror si tratta), ma che potesse al tempo stesso risuonare con il nostro quotidiano, sfruttando la riconoscibilità di un marchio per parlare di ciò che concretamente ci spaventa o tormenta nel presente. Sulla scia dei grandi consensi raggiunti da quel film (che si vide costretto, purtroppo, a saltare la sala cinematografica a causa della pandemia di Covid-19), Universal e Blumhouse hanno deciso di ingaggiare di nuovo Whannell – noto soprattutto, lo ricordiamo, per aver creato le saghe di Saw e Insidious insieme al ben più noto James Wan – per riportare sul grande schermo un altro classico mostro, imbastendo un’operazione che, almeno nelle premesse, sembra avere molti punti di contatto con il film del 2020. Dopo l’Uomo invisibile, è la volta dell’Uomo lupo.
Il protagonista di Wolf Man è Blake (Christopher Abbott), marito e padre dal passato turbolento che eredita la casa d’infanzia nelle foreste dell’Oregon dopo la scomparsa di suo padre, che viene dato per morto dopo lunghi anni di ricerche in quegli stessi luoghi. Nel tentativo di salvare il suo matrimonio con Charlotte (Julia Garner), Blake convince la moglie a prendersi una pausa da San Francisco e andare a visitare la proprietà insieme alla loro figlia Ginger (Matilda Firth). Nel cuore della notte, la famiglia viene attaccata da un animale invisibile e, in una fuga disperata, si barrica all’interno della casa mentre la creatura si aggira minacciosa attorno al perimetro. Con il passare delle ore, Blake inizia a comportarsi in modo strano, mostrando i segni di una specie di virus e trasformandosi lentamente in qualcosa di irriconoscibile; a quel punto Charlotte sarà costretta a decidere se il terrore all’interno della casa, rappresentato dal mostro che sta prendendo il posto di suo marito, sia più letale della creatura che si trova all’esterno.
Deterioramento del corpo… e della psiche
Proprio come il suo predecessore, anche questo nuovo Wolf Man, nelle sale italiane dal 16 gennaio, trasporta la storia classica ai giorni nostri, reimmaginandola in un contesto fortemente attuale e dai toni particolarmente drammatici, mettendo da parte tutti gli aspetti legati alla dimensione fantasy. Tuttavia, a differenza de L’uomo invisibile, questa volta la transizione verso uno scenario moderno attraverso cui riflettere sulle paure del quotidiano, non avviene in maniera altrettanto convincente. C’è molta tensione in Wolf Man, davvero ben gestita e arricchita da alcuni tocchi creativi che dimostrano tutte le ottime qualità di Leigh Whannell quando si trova al servizio di un high concept movie. Tuttavia, al film manca quella chiarezza tematica che aveva contraddistinto il precedente lavoro del regista; si perde la capacità di andare a smuovere davvero l’interiorità dello spettatore e, di conseguenza, rimanere veramente impresso.
Sicuramente, quella di Wolf Man non è una tradizionale storia del mostro che emerge dagli anfratti della più bui e minacciosi della notte: Whannell è interessato ad immergere la figura dell’Uomo lupo nella contemporaneità – com’era già successo, appunto, con quella dell’Uomo invisibile – costruendo una storia in cui l’esplorazione della trasformazione non passa solo attraverso il lento e progressivo deterioramento del corpo, ma anche e soprattutto attraverso quello della psiche. La natura selvaggia e irrazionale del lupo si intreccia, quindi, con le debolezze e le fragilità che caratterizzano la personalità di Blake (interpretato da un convincente Christopher Abbott, già apprezzato in film come Sanctuary e Povere Creature!), tormentato dalle cicatrici dell’infanzia, esasperato dal bisogno di essere un buon padre, annientato dall’incomunicabilità che caratterizza il suo matrimonio (purtroppo la Julia Garner di Ozark e Inventing Anna non si rivela una spalla all’altezza della situazione).
Tra gli aspetti più interessanti del film, c’è sicuramente il modo in cui Whannell si approccia alla trasformazione dell’uomo in lupo dal punto di vista visivo. Il regista si distacca dal concetto di mitologia – non si parla di maledizioni, non c’è la luna piena, la mutazione in bestia non è né ciclica né temporanea – per abbracciare anche sul versante estetico quella che rappresenta a tutti gli effetti la metafora centrale della storia, ossia il concetto di mascolinità tossica, puntando ad una rappresentazione particolarmente intensa del dolore e della violenza. Inoltre, la scelta di far corrispondere la progressiva transizione ad una serie di meccanismi percettivi e sensoriali si rivela tanto affascinante quanto inquietante.
Un approccio velato, mai veramente approfondito
Attraverso la crisi personale di Blake e dei suoi complicati rapporti familiari, Wolf Man prova a ragionare sul concetto di società patriarcale e sulla violenza intrisa nelle condizioni di machismo più forzate, sottolineando come le colpe dei padri siano in grado di plasmare l’esistenza dei figli (e di conseguenza quella della famiglia che quest’ultimi, a loro volta, andranno a costruirsi). Il problema è che l’approccio di Leigh Whannell, in questo caso, è fin troppo velato, mai veramente approfondito, a conti fatti un po’ pretestuoso. Il risultato finale è una storia che manca totalmente della potenza e della profondità che avevano contribuito alla riuscita di un’operazione di riadattamento come quella de L’uomo invisibile.
Whannell pesca dall’home invasion e dal body horror, non si lascia sfuggire la possibilità di omaggiare alcuni grandi cult del passato (su tutti, Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis), mescola gli aspetti dell’horror e le dinamiche del classico b-movie a quelle del dramma psicologico con ramificazione nelle riflessioni di stampo sociale, sforzandosi di trovare un punto di vista originale. Tuttavia, il regista – autore anche dello script insieme a Corbett Tuck – dimentica forse lungo la strada quello che doveva essere l’obiettivo principale di questo ritorno dell’Uomo lupo sul grande schermo: collegare la mutazione bestiale ad una rilettura dell’orrore insito nella nostra quotidianità e della condizione del polveroso e stucchevole maschio alfa nell’era post-moderna.