Vetro è il titolo dell’opera prima diretta da Domenico Croce, regista già premiato ai David di Donatello 2021 grazie al suo cortometraggio Anne. Questa volta, il banco di prova è quello del grande schermo, dove il film approderà a partire dal 7 aprile dopo l’anteprima ufficiale che si è tenuta al Bif&st alla presenza della protagonista Carolina Sala (vista di recente nella serie Netflix Fedeltà), che nel film ha diviso la scena con gli attori Tommaso Ragno e Marouane Zotti.
Lei è una ragazza che da un tempo indefinito non esce dalla propria stanza; vive con il suo cane Hiro e con suo padre, al quale però non è concesso di varcare la soglia del suo piccolo mondo. La rigida routine che scandisce le sue giornate viene interrotta quando, osservando dalla finestra, si convince che nel palazzo di fronte una donna sia tenuta segregata, e inizia così a combattere tra il desiderio di salvarla e l’impossibilità di uscire dalla propria prigione. Durante la sua indagine conosce in chat un ragazzo con il quale inizia una relazione online, fatta di videochiamate e chiacchierate notturne, che diventerà suo complice nel cercare di capire cosa stia succedendo realmente nel palazzo di fronte. Ma dietro un vetro non tutto è davvero come appare.
Vetro è, letteralmente, una sfaccettata opera complessa: proprio come il titolo che la rappresenta, essa incarna le contraddizioni di una realtà dove niente è davvero come sembra, nella quale le ombre e i riflessi possono ingannare distorcendo la percezione della verità. Deformazioni, rimandi, doppelgänger spettrali di persone e oggetti che si agitano sulla scena come spiriti evocati da un negromante, chiamati a narrare un racconto (per immagini) ben più stratificato di quanto possa sembrare in apparenza.
Ad una prima visione, il film si configura come un tradizionale thriller psicologico architettato su una solida struttura costituita dal soggetto – e dalla successiva sceneggiatura – scritta da Ciro Zecca e Luca Mastrogiovanni (già co-autori della serie Vita da carlo): una giovane donna, un ostacolo che la vincola alla stanza che ha trasformato nel suo mondo, un senso di claustrofobia che la attanaglia impedendole di uscire e affrontare il mondo esterno, nonostante la presenza amorevole di un padre definito dalla propria voce e del quale si intravedono, in realtà, appena le mani. Tutti elementi comuni al genere thriller, topoi ricorrenti e cliché che ne hanno definito, nel corso del tempo, canoni, ritmi e suggestioni.
Dal Polanski di Repulsion e L’inquilino del terzo piano fino al recente Ultima notte a Soho firmato da Edgar Wright, senza mai dimenticare la lezione sulla suspense scritta dal maestro Alfred Hitchcock: le protagoniste femminili, complice forse anche la profondità complessa dell’universo che incarnano, sono state le narratrici privilegiate di uno storytelling dal taglio thriller, capace di scavare nei labirinti perturbanti dell’animo e della mente umana, svelando quell’oscurità interiore che spesso cerca di fagocitare queste donne, finendo però per essere sconfitta dalla loro forza di volontà. Ed è proprio quest’ultimo il “punto di vista” privilegiato che Croce, attraverso Vetro, sceglie di sposare: tutte le vicende mostrate sullo schermo sono filtrate attraverso gli occhi dell’animo turbato di Lei, della protagonista femminile che si trasforma in motore immobile (e soggetto agente) delle azioni mostrate.
Ma Vetro non si limita a narrare, attraverso le immagini, una comune storia di orrore e suspense: la fotografia satura, con i colori sgargianti che definiscono un mondo da film d’animazione (ricco quanto dettagliato, “piatto” e definito nella risoluzione), è solo la punta dell’iceberg di un processo più complesso che trasforma il genere in una lente deformata, capace di filtrare la nostra realtà restituendola sotto un’altra ottica, enfatizzata e grottesca. Nel film di Croce si toccano temi legati alla nostra contemporaneità, come la solitudine nei rapporti umani, le distanze incolmabili, il fenomeno degli hikikomori e quello del voyeurismo digitale; ma anche il revenge porn e perfino la tossicità di alcune relazioni. Una teoria di focus caldi che sfruttano una drammaturgia capace di parlare ad un ampio pubblico, intrattenendolo e spingendolo – allo stesso tempo – alla riflessione.
In Vetro ogni gesto o dettaglio si trasforma in allegoria, correlativo oggettivo che racchiude un indizio per la comprensione del film, che si rivela come un’opera prima affascinante e inquieta, capace di giocare più sul piano delle suggestioni che su quello dei messaggi didascalici e convenzionali; sembra quasi voler suggerire, senza mai spiegare troppo. Sono queste le basi perfette per un’esperienza visiva, per un cinema della mente e non solo degli occhi, eppure mai così in grado di parlare un linguaggio mainstream – quello del genere – che può affascinare tutti, trascinandoli nel suo perturbante dedalo di incubi ad occhi aperti e sogni lucidi spalancati su un mondo inquieto.