Vi sono temi che il cinema forse non è in grado di affrontare, incubi che nella realtà non hanno fine solo perché non si vuol porre loro fine. Pensieri incauti, questi, che hanno il sopravvento appena terminata la proiezione de Un’ombra sulla verità (“L’homme de la cave”, in originale), dal 31 agosto nelle sale con BIM, uniti al dispiacere di aver visto un importante film “mancato”, che non potrà annoverarsi fra i migliori dell’anno per via di vistosi limiti: verboso quando la cinepresa “parla da sé” (fin troppo) e reticente laddove occorrerebbe una profondità maggiore, toni irruenti quando non addirittura “isterici”, ambiguità non sempre volute e comunque non feconde, tesi enunciate in modo greve, insistente senza argomenti davvero incontestabili, un’incerta ibridazione fra parabola “didattica” sull’odio razziale e nazionale (con le parti rovesciate) e novella nera “alla Stephen King” (si legga Un ragazzo sveglio) sulla seduzione orale del Male.
Ciò nonostante l’ultima fatica di Philippe Le Guay (Il costo della vita), la decima per il grande schermo, dev’essere vista, valutata con attenzione, in particolare dagli studenti all’ultimo anno di liceo “immersi” negli orrori del Secondo Conflitto o specializzandi di atenei alle prese con le voci della “biopolitica”: per quasi due ore la narrazione attacca alla gola, senza mai mollare la presa, conducendo lo spettatore nel labirinto nella sua psiche, in tutto il rimosso che si ha nei riguardi della complessità del reale, del “perturbante nella Storia” (titolo di una bella curatela di Accati e Cogoy), disciplina che si vorrebbe, in fondo, “stabile” e astratta; del luogo chiuso (nel duplice senso, fisico – cubicolo, fosso o carcere che sia – e figurato quale, ad esempio, una “gabbia identitaria”), del terrore di cadervi e l’irrazionale, non di rado perversa “sicurezza” che infonde l’imprigionarvi qualcuno o qualcosa, illusi che si possa controllare, “negare”, far scomparire dagli occhi e dalle menti. Ulteriore prova – sulla falsariga, appunto, di Foucault – che ogni rapporto equivale sostanzialmente ad un rapporto di forza e non vi è fantasia più fervida di quella che l’Uomo ha riposto e ripone tutt’ora nelle varie forme di coercizione.
Vittime e goffi corresponsabili a un tempo del guaio che, dall’oggi al domani, li “paralizza”, i coniugi Simon ed Hélène Sandberg sperimentano sulla pelle i meccanismi psico-culturali appena descritti. Residenti in un condominio della Goutte d’Or parigina, architetto lui (Jérémie Renier), caposala del reparto di immunoematologia lei (Bérénice Bejo), genitori di una ragazza scontenta e confusa, i nostri mostrano il proprio dimesso garage a Jacques Fonzic (François Cluzet), professore di Storia di un liceo di Chaville, fresco di pensione. Lo spazio verrebbe destinato a mobili e cianfrusaglie della madre, morta di recente, sgombrando così la vecchia casa di campagna: la parola del maturo gentiluomo, eccentrico ma corretto, basta e avanza a Simon per redigere un contratto alla bell’è meglio, senza la mediazione del commercialista; dabbenaggine che irrita Hélène, già sospettosa che il fine dell’acquisto sia un altro. Timore fondato: a dispetto delle condizioni igieniche o della personale dignità, Fonzic trasforma in pochi giorni lo spazio angusto in un alloggio. Scopriamo, inoltre, che furono certe teorie di revisione dell’Olocausto, riferite e in parte propugnate in classe, a costargli la cattedra, anziché l’età o l’instabilità emotiva (la madre, invero, scomparve anni prima).
I vincoli culturali e di sangue dei Sandberg, intuibili dal cognome, si fanno presto sentire ma dal momento che l’accordo fra Fonzic e Simon risulta sostanzialmente valido e le idee politiche del primo non costituiscono motivo di recesso, lo sfratto è inattuabile. Un semplice gesto malaccorto, compiuto in un pomeriggio uguale a tanti, degenera quindi, a poco a poco, in una tragicomica “guerricciola”, fra colpi bassi e quotidiane perfidie, che porterà in superficie il peggio di ognuno, dai protagonisti alla “fauna” condominiale per la quale i giorni della delazione sotto il governo di Vichy (scioccato, Simon scoprirà che il suo stesso immobile appartiene ancora per legge a un poveretto che, in quel periodo, fu orbato di ogni avere per “arianità non provata”) sembrano non essere mai passati. In questa buriana, la figlia adolescente dei Sandberg, Justine (Victoria Eber), letteralmente rannicchiata nell’ombra, inascoltata, illuminata solo dal “rassicurante” schermo del pc, pare l’unica, pur giocando col fuoco, a voler guardare in faccia il “mostro”, a porgli (e porsi) delle domande; «Non abbiamo tutte le risposte. Non dar retta alla Storia ufficiale: pensa con la tua testa» le ripete Fonzic. In ogni “falso”, anche il più clamoroso, è bene accettarlo, si nasconde sempre qualcosa di autentico…
Scritto da Le Guay insieme a Marc Weitzmann e Gilles Taurand (autori del notevole Un affare di gusto), vagamente ispirato all’affare Bernard Notin (interdetto alla docenza alla “Lyon III” nel luglio del ’90 per tesi antisemite, pubblicò in seguito il saggio La società dei non-cittadini), il copione ruota attorno a un’apparizione, un ricorrente, “frustrante” movimento di macchina ossia il piano-sequenza con cui Guillaume Deffontaines (Camille Claudel 1915) esplora i locali sotterranei del condominio dei Sandberg, fermandosi ogni volta all’ingresso del garage occupato da Fonzic, impedendo al pubblico di accedervi. Di cosa si sta tacendo? Che avviene all’interno? Può dirsi realmente una “cella” o ve ne sono di peggiori, occulte, camuffate magari da ricompense e posizioni sociali? Zona grigia da riempire con illazioni e paure, tappeto sotto cui nascondere la polvere, metafora delle “cloache” della Rete dove si celebra il culto delle memorie maledette, strano Inferno segretamente desiderato da chi, come l’arruffato insegnante, si sente “con la coscienza pulita” senza, però, evitarne il contrappasso (vicino all’ingresso spicca un “provvidenziale” forno crematorio), tale lugubre scenario lascia il segno.
Incisiva, poi, la trovata di spezzare sul finire della frase gli sfoghi di Fonzic contro l’aggressore di turno: «Siete tutti uguali voi…». Voi chi? Loro, gli altri… il mondo esterno. Uomini e donne, giovani e adulti, ebrei e iraniani, francesi e spagnoli, ciascuno privato, nel nuovo disegno globale, del suo spessore, ignorante del proprio ieri (di cui non sa nulla né si cura di sapere nulla), ridotto a stereotipo di sé (incluso il professore che, perdendo il senno, si arrende a indossare esattamente, definitivamente la grossolana “maschera” che la folla si aspetta da lui), emanazione di un reale che oggi non può farsi altro che immagine, “imitazione”. Taglienti intuizioni penalizzate, come su accennato, da una regia non avvezza al dramma (Le Guay ha diretto perlopiù commedie), che predilige lo “stampatello” al “corsivo”.
C’era bisogno delle insinuanti figure degli avvocati Steiner (Sharif Andoura) e Vasquez (Laëtitia Eïdo), le cui fattezze Édouard Drumont e Julius Streicher non avrebbero saputo caricaturare meglio? Oppure mettere in bocca a Fonzic il noto monologo di Shylock («Se ci pungete, non sanguiniamo?»), far cadere Hélène preda di un impulso omicida, subito abortito, con tanto di siringa e cipiglio “alla Mengele”, simulare in colonna sonora i battiti d’ali di pipistrelli (Bruno Coulais compone qui la sua partitura peggiore) per far assomigliare il garage alla tana dell’Orco? Si evita il ridicolo ma lo si sfiora pericolosamente. La pancia è una cattiva consigliera, specie su questioni delicate: Un’ombra sulla verità lo conferma. Da segnalare le scenografie del bravo Manu de Chauvigny (Le passage, Caché).