L’ultima fatica di Christian Petzold, da poco in sala, ben soddisfa quanto Guido Gozzano si augurava circa l’avvenire del cinema: secondo il poeta torinese, il nuovo diversivo avrebbe dovuto percorrere le vie della fiaba; solo così la realtà, anche quella più ispida, sarebbe forse giunta agli occhi del pubblico nella sua più vivida essenza. Nel caso di Undine, l’indice è discretamente puntato verso il mito dell’Europa, del progresso e le sue dannose derive.
Eleade senz’anima, fanciulla pisciforme, guardiana di stagni e cascate, l’Ondina ha “nuotato” a lungo, silenziosa, fra le narrazioni audiovisive. Fu lugubre e famelica per Curtis Harrington (1961) e Svjatoslav Podgajevskij (2018), “benigna” per Rolf Thiele (1973) e Neil Jordan (2009), “melodiosa” per il ceco Václav Kašlík (1962), nel segno dell’opera di Dvořák. Che valore ha, invece, per il renano Petzold questa misteriosa creatura? Autore de Il segreto del suo volto e La donna dello scrittore, che formano con Undine un curioso “trio d’archi” sul Vecchio Continente, il nostro si rifà, a cominciare dal prologo, alla celebre novella (1811) di Friedrich de la Motte-Fouqué, profondamente amata da Edgar Allan Poe, ma, più importante ancora, guarda al poeta Heinrich Heine il cui immaginario impregna nell’intimo questa riscrittura filmica del mito dell’Ondina, al punto da evolvere in una dolente parabola di “Dèi in esilio”; tema, a quanto pare, caro alla produzione fantastica dell’ultimo decennio. Passando per i giovani “mezzosangue” della serie di Percy Jackson, il dio-pesce de La forma dell’acqua o i Troll di Border troveremo spesso, infatti, degli esseri braccati, “irretiti”, costretti a umiliare la loro soprannaturale, quando non proprio divina, identità sotto mentite spoglie.
Paula Beer, premiata all’ultimo Festival di Berlino con l’Orso d’oro per la miglior interpretazione femminile, ci offre, quindi, un’indimenticabile Ondina “in esilio”: lunghi capelli rossi, affusolata, taciturna, sguardo vitreo, perennemente atterrita, come un’esploratrice che continua a non comprendere usi ed emozioni dei popoli da lei incontrati. Custode della memoria degli uomini, destinati a compiere le stesse futili gesta nonostante il passare dei secoli, essa non può che “nascondersi” dietro i panni di un’operatrice museale. Christoph (Franz Rogowski), stralunato palombaro, prende così il posto del cavaliere Hulbrand del racconto di la Motte-Fouqué mentre i vendicativi Spiriti del Fiume sono divenuti pacchiane statue di gesso nel cortile interno di una tavola calda berlinese, con tanto di acquario da cui partono spettrali sussurri.
Svelare di più sulla storia sarebbe un peccato. Basti sapere che Petzold, dopo aver reso omaggio nelle pellicole suaccennate rispettivamente al Cukor di Volto di donna e al Robbe-Grillet de L’immortelle, stavolta rievoca nientemeno che lo spettro di Jean Cocteau (1889-1963) e all’autore della “trilogia orfica” Undine non sarebbe affatto dispiaciuto per un’affine abilità a non rifugiarsi in un immaginario stantio e servirsi, invece, di ogni possibile suggestione della capitale tedesca e dei suoi dintorni lacustri e verdeggianti (come Cocteau si servì di Parigi) per ritrovare l’essenza stessa del mito. Riguardo alla critica scorta all’inizio, due episodi accorrono in aiuto dello spettatore più attento: Undine presenta nel dettaglio, ad un gruppetto di visitatori del Märkisches Museum, un plastico datato 1688, riproducente l’agglomerato “Berlin-Cölln-Friedrichswerder”, rammentando loro che un tempo, laddove ora sorge la grande città, si stendeva una vasta palude; anticipando poi a Christoph, dopo una notte d’amore, la lezione appresa per una nuova comitiva la protagonista conclude sorridendo “Il progresso non è un semplice cambiamento e, comunque, ha cambiato poco”. Perciò Undine, secondo il regista, incarnerebbe la paludosa, selvatica Berlino (l’Europa?) del passato alla quale ciascun uomo sente inspiegabilmente di appartenere, provandone nostalgia e abissale attrazione ma, al tempo stesso, subisce l’indomabile tentazione di “tradirla” con le forme magnificenti, razionali e “controllabili” del progresso urbano (per Christoph, il dubbio è se preferire la “rassicurante” Monika, compagna di lavoro, all’inquieta ninfa fluviale). Quale sentimento prevarrà?
A cullare i sensi saranno, intanto, l’accurata fotografia di Hans Fromm nonché il frequente (e un po’ compiaciuto) ricorso in colonna sonora ad una trascrizione per pianoforte del noto Adagio dal Concerto per oboe in Re minore (1715 ca.) di Alessandro Marcello, meglio conosciuto dagli ascoltatori più maturi come “Anonimo veneziano”. Buona visione!