Oltre 96.000 spettatori già dal primo week-end di programmazione in Francia e il passaparola cresce pure tra i frequentatori delle sale d’essai italiane, raggiungendo con sorpresa nicchie di giovanissimi, abituati ai “grossi” nomi dei multiplex. Come spiegarsi l’inatteso, buon successo de Una relazione passeggera (“Chronique d’une liaison passagère”, in originale)? Il bisogno, immutato e immutabile, di abbandonarsi ad una storia “umana”; piacevolmente, disordinatamente umana, lontana da “effetti speciali” che non siano quelli del dio Pan (boschi, cascate) o della musa Euterpe (composizioni di Mozart e Poulenc accarezzano la narrazione). Ciò distingue la breve (ma non troppo) relazione erotica fra Charlotte (Sandrine Kiberlain), insegnante d’arte divorziata e madre di due figli, e Simon (Vincent Macaigne, bravissimo), timido e logorroico osteopata assegnato a centri preparto, per la prima volta infedele a sua moglie (che non vedremo mai, fra l’altro).
Nulla hanno in comune, a detta di Lei, amore e passione: la seconda è mera desolazione, “propaganda nichilista” (testuali parole), insano, segreto desiderio di morte che corre lungo il XX sec. «Ho voglia di vacanze» aggiunge la donna «di salire sugli alberi, coglierne i frutti, gustarli senza farmi troppe domande». Più ordinaria sembrerebbe la posizione di Lui ma, come Charlotte ha forse intuito, sotto la maschera paciosa e imbranata si cela un “seduttore seriale” che fa, suo malgrado, della personale, ossessiva premura e discrezione verso il gentil sesso (ai limiti della ginofobia) un’arma affilata, in un certo senso la più perfetta forma di corteggiamento.
Nelle conversazioni di questi “eroi dei nostri tempi” il concetto di amante non viene mai espresso attraverso i vocaboli “amant” o “amoureux”: è maîtresse a prevalere, con tutti i sottintesi del caso. Charlotte s’illude d’essere una padrona (esser vista, ascoltata, ammirata), viceversa Simon una padrona la cerca, la sogna ma… non possiede la “sublime” coerenza di annullarsi pienamente. Ambedue, in fondo, sono rimasti bambini: si rincorrono, scherzano e, dopo aver fatto l’amore, giocherellano addirittura con il meccano o con dinosauri di gomma. Delicata ma affatto arrendevole, Louise (Georgia Scalliet) si unirà a loro, divenendo la terza punta di un “triangolo” e, senza volerlo, l’onda d’urto che lo sbriciolerà…
Una vicenda squisitamente umana
Fiaba volubile, dunque, quella di Charlotte, Simon e Louise, ora assai chiara e lineare, ora più contorta e stanca. Come la vita stessa. La pudicizia e la fine ironia con le quali Emmanuel Mouret racconta la confusione del presente, l’insofferenza a contrarre legami, d’ogni sorta o durata, non sono tuttavia le uniche spiegazioni alla buona riuscita de Una relazione passeggera. Esplorando l’undicesima prova del sensibile regista marsigliese (di lui si recuperino Vénus et Fleur e soprattutto Mademoiselle de Joncquières), classe ’70, non si trova, infatti, passaggio, tratto o dettaglio dei personaggi che non sussurri «Il futuro è Donna», similmente all’omonimo film (’84) di Marco Ferreri, con la differenza che l’opposizione fra la viltà, la miseria mentale del maschio e la corporeità, lo spirito, l’impenetrabile silenzio femminili intesi, appunto, come nuovo “sapere”, nuovo registro dell’esistenza (tema favorito del grande provocatore), viene qui portata dal copione di Pierre Giraud alle estreme conseguenze evitando, però, con la grazia di un equilibrista sulla fune, i toni grevi della dimostrazione.
Il sussurro prosegue: «Fredda analisi dei fatti? Assenza di trasporto emotivo, di giudizio? Non possono competere con la seduzione dell’irrazionale, della dipendenza, della stagione in cui ‘non si è divenuti del tutto’ che ha per nome fanciullezza. Il Realismo, il Positivismo hanno perciò fallito il loro scopo nella Storia». Non ci credete? La memorabile sequenza del primo scambio fra Charlotte, Simon e Louise mentre visitano la collezione d’arte del Petit Palais vi farà cambiare parere: un gentiluomo, due “ninfe” in borghese e… tre tele di Gustave Courbet – Fanciulle sulla riva della Senna (1857), Sentimenti di giovane età (1844) e il saffico Il sonno ovvero Le due amiche (1866) – che quasi “osservano” dalla parete, divertite e “inascoltate”, la mal assortita combriccola, ansiosa di denudarsi pur rimanendo rigorosamente “vestita” dentro.
E in mezzo a prevedibili (nondimeno azzeccate) allusioni al trattato De l’amour (1822) di Stendhal (Charlotte ricorre alla celebre metafora della “cristallizzazione”: simile ad un ramoscello deposto in fondo alle miniere di sale e poi ritrovato tutto splendente di infinite formazioni cristalline così è l’oggetto d’infatuazione, trasformato e idealizzato dall’amante) si intrufola, per contro, una tiepida brezza pagana (soffiante pure in altre recenti pellicole: Chiamami col tuo nome, Gli amori di Anaïs, Summerland) che scende sul verde, i corsi d’acqua in Val d’Oise e sulle Alpi dell’Alta Provenza – magnificamente immortalate da Laurent Desmet (La clé des champs) – elevandoli a fondale di una “fête galante” alla Watteau dove i protagonisti tengono la propria amorosa danza.
Molte altre sono le suggestioni che si schiudono nei piacevolissimi 100’ di proiezione, da L’eclisse di Antonioni (quando la passione fra Charlotte e Simon diviene cenere, la cinepresa li abbandona bruscamente, per indifferenza oppure “dispetto”, ripercorrendo gli spazi urbani o naturali, ormai vuoti, vissuti dalla coppia) a Racconto d’estate di Rohmer (Simon è pressappoco un “allievo” di mezza età del cervellotico Gaspard) fino a Voci nel tempo di Piavoli (il canto vespertino di una chiesa di campagna agisce sui nostri, per pochi memorabili istanti, al pari di un magico richiamo). Peccato per quella conclusione accattivante alla Borotalco, con il trionfale Arrivo della regina di Saba di Haendel al posto degli Stadio… ma, in fin dei conti, va bene anche così.