É ben difficile aggiungere qualcosa a quanto già riportato su Un altro mondo (da oggi in sala con “Movies Inspired”) in altri articoli. L’ultimo lavoro di Stephane Brizé, il nono per l’esattezza, è un gran film. Tutto qui. Ma non è certo poco. Durante la visione, tesa e serrata, si ha un’ulteriore prova della vividezza del cinema transalpino dell’ultimo sessennio (si recuperino Le nostre battaglie, Il mio profilo migliore, Gloria mundi, Imprevisti digitali) nonché della sua capacità di “fotografare”, senza mai perdere un attimo l’attenzione dello spettatore, l’odierna realtà (familiare, sociale, produttiva), in furiosa, perenne transizione, fra prigioni di vetro, sfibranti malesseri e, formula un po’ lisa, il definitivo (?) sgretolamento delle “grandi narrazioni” (e meta-narrazioni) nelle principali ideologie (illuminismo, idealismo e marxismo) dell’Ottocento e del Novecento.
Di Brizé, classe ’66, c’è un aspetto da evidenziare. Nativo di Rennes, rabbia controllata e “passione rossa” (espressione di Remo Bodei) che innerva ogni tessuto, il nostro si accoda, pur con le debite differenze d’età, ai colleghi Robert Guédiguian (Le nevi del Kilimangiaro) e la “strana coppia” Benoît Delépine e Gustave Kervern (Near death experience), formando assieme una sorta di curioso “fortilizio d’opposizione”, uno dei pochi attualmente concepibili (perlomeno “sul grande schermo”) nel Vecchio Continente: eredi a modo loro del fermento teorico dei decenni Cinquanta e Sessanta (si rammenti il motto “Socialismo o barbarie”), i registi citati criticano, infatti, la società in cui vivono (e viviamo) da una prospettiva non tanto economica o “evenemenziale” (dinamiche, ambienti e fatti inscenati sono, comunque, attendibili e precisi) quanto piuttosto dal profondo, dalle radici, laddove il mitico e il politico, lo spirituale e il fisico, prima fittamente intrecciati, allentano oggi i legami, immiserendosi. La Rivoluzione, paiono dirci questi “pensatori con la macchina da presa”, non può essere intellettualisticamente «progettata a tavolino» né potrà tradursi in atto se non ci interrogheremo prima su questo nugolo, questo “pianeta morente” al quale rischia di ridursi l’essenzialità umana. Nel caso in esame, che sguardo getta Brizé sull’Umano, gli impulsi, le privazioni, lo stravolgimento dei suoi ritmi, e quali possibili soluzioni propone?
La legge del mercato (2015) suggeriva, ad esempio, di “uscire” da questo implacabile mondo-supermercato (che spinge un’inserviente al suicidio), letteralmente, senza indugio, ben sapendo che pochi avrebbero il coraggio di prendere la decisione di Thierry (Vincent Lindon). Nel successivo In guerra (2018), opera di transizione, furia e rassegnazione andavano di pari passo: la ricerca della Verità, celata dietro le tante, sfiancanti richieste di udienza diretta con il presidente dell’impresa metallurgica, diventa constatazione del trionfo della Macchina su tutto, compreso il lessico (Hauser, il menzionato presidente, fornisce agli operai spiegazioni a dir poco criptiche). Con Un altro mondo (potente “voce di chiusura” della 78a Mostra del Cinema della Biennale di Venezia) Brizé compie un ulteriore passo: va dall’altra parte della “barricata”, adottando il punto di vista dei dirigenti aziendali. Non tutti. Quelli, e ve ne sono, che non hanno rinunciato alla facoltà di sentire e di riflettere da sé, pagando di persona, seppur tardivamente e per quel “piccolo” che compete loro, negligenze e leggerezze (comunque ancora “umane”) commesse negli anni.
«Io e Olivier Gorce» – riferisce il regista – «ci siamo confrontati con molti dirigenti rimossi, per una ragione o per l’altra, dal loro incarico, pur avendo seguito per anni i dettami del Sistema (maiuscolo mio; N.d.R.) senza far troppe domande. Venivano dall’ingegneria, dall’industria metalmeccanica, dal settore bancario, socio-assistenziale, pubblicitario, assicurativo o cosmetico. Ciascuno dotato di grandi capacità intellettuali o gestionali. […] Ci hanno confidato il loro disagio, la difficoltà a convivere con la sensazione di essere divenuti la pura e semplice “cinghia di trasmissione” di un sistema feroce, pieno di ingiunzioni contraddittorie. E, ugualmente, il rimorso per non essere stati all’altezza del ruolo affidatogli. Non erano carnefici nati ma non potevano nascondere che proprio in quello, gradualmente, si erano trasformati, smarrendo in parallelo il senso della propria vita, e personale e professionale».
Il personaggio di Philippe Lemesle (ancora una volta Lindon), responsabile di stabilimento (“plant manager” in inglese) per un’impresa parigina di elettronica, protagonista della vicenda, incarna tutti i tentennamenti, le scorciatoie e gli improvvisi lampi di lucidità e rifiuto delle testimonianze raccolte da Brizé insieme al fido sceneggiatore Gorce. Quando Claire Bonnet-Guérin, collega di grado superiore nonché portavoce del C.d.A. francese presso la corporazione “madre” statunitense, ordina al remissivo Lemesle di licenziare una percentuale significativa di dipendenti l’uomo sente l’acqua salirgli in gola. Che fare? Quesito vecchio di 120 anni che, una volta di troppo, lascerà vittime sul campo… Un’ora e mezza, praticamente ininterrotta, di accese discussioni a livello sindacale, aziendale, privato, resa appassionante dallo scatto ritmico e l’attenzione della regia come pure dall’intensità degli attori. Accanto al sempre carismatico Vincent Lindon vediamo Sandrine Kiberlain nei panni della moglie Anne e Anthony Bajon in quelli del figlio Lucas. Pure Marie Drucker e Jerry Hickey, rispettivamente l’inflessibile Claire e il luciferino Mister Cooper, fanno bella figura.
Unico neo: l’ottimismo della conclusione (la scelta individuale può fare la differenza), un filo ingenuo. Ma è, appunto, una “pagliuzza”. Per un approfondimento si consiglia la recentissima monografia Brizé / Lindon. Les plans de bataille di Quentin Victory Leydier (Éditions LettMotif; 2022).