Ultima Notte a Soho è l’atteso nuovo film diretto da Edgar Wright, il geniale cineasta britannico già artefice di successi come la famosa “Trilogia del Cornetto” e Baby Driver – Il genio della fuga. Per questa nuova, insolita, avventura che si dipana in quel confine sottile tra thriller psicologico e horror introspettivo, Wright ha scelto come protagoniste le giovani Thomasin McKenzie (JoJo Rabbit) e Anja Taylor-Joy (La regina degli scacchi), insieme a Matt Smith, Terence Stamp e la compianta Diana Rigg. Dopo essere stato presentato Fuori Concorso durante la 78esima Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, il film è disponibile nelle sale italiane dal 4 novembre.
Eloise (McKenzie) è un’aspirante stilista di moda che sceglie di trasferirsi dalla Cornovaglia a Londra, per frequentare una prestigiosa scuola di fashion design nel quartiere di Soho. Ma scopre ben presto che, attraverso una inspiegabile connessione tra il tempo e lo spazio, è misteriosamente in grado di entrare negli anni ’60 dove incontra un’affascinante aspirante cantante, Sandie (Taylor-Joy). Ma quando i sogni del passato cominciano a incrinarsi e frantumarsi in qualcosa di molto più oscuro, Eloise inizia a sentirsi in pericolo.
Ultima Notte a Soho è il film più maturo e complesso dell’intera filmografia di Edgar Wright, quello che riflette la sua profonda conoscenza della Settima Arte e la sua abilità nell’applicarla ad un cinema che diventa artigianato, prodotto figlio della creatività e della contaminazione tra stili e generi. E proprio quest’ultimi sembrano ispirare costantemente il cineasta inglese, permettendo nella sua nuova opera di guardare tanto ai film d’autore quanto ai grandi titoli che hanno nobilitato l’horror e il thriller di un decennio, quello tra gli anni ’60 e i ’70. Se è lo stesso Wright a citare opere come Darling di John Schlesinger e Blow Up di Michelangelo Antonioni in più di un’occasione – complice l’estetica ’60s ricercata – sembrano però non finire qui gli spunti creativi per l’immaginario visivo, estetico e grafico di Ultima Notte a Soho.
C’è, infatti, nel film eco della psichedelia acida e caleidoscopica di Ken Russell, di Nicolas Roeg (A Venezia… un dicembre rosso shocking), perfino di Donald Cammell (Sadismo, in originale Performance); c’è l’orrore inquieto di Repulsione, diretto da un giovane Roman Polanski, senza dimenticare una tavolozza di colori che strizza l’occhio a quella scelta da Luciano Tovoli per la fotografia di Suspiria, diretto da Dario argento. E proprio Argento, di riflesso insieme a Lucio Fulci, sembrano aleggiare a più riprese nelle scelte estetiche e nelle soluzioni tecniche adottate dal film, ricreando quelle suggestioni e quell’atmosfera che attraversava indisturbata i film italiani thriller/horror coevi rispetto al periodo ricostruito nel film.
E anche la colonna sonora rutilante contribuisce a tale ricostruzione, permettendo allo spettatore di immergersi progressivamente nell’atmosfera cool, fumosa e imprevedibile della Swinging London degli anni ’60. Ancora una volta Edgar Wright riconferma il suo talento nel sottoscrivere i passaggi più importanti di un film attraverso le scelte musicali – come del resto ha sempre fatto anche l’amico e collega Quentin Tarantino – riuscendo a commentare le scene attraverso la canzone giusta al momento giusto; ed è proprio in questa prospettiva che Downtown, il grande successo di Petula Clark, si trasforma in un leitmotiv affascinante e sinistro grazie alla voce delicata di Anya Taylor-Joy, un Bianconiglio sonoro che invita lo spettatore a seguirlo fin nel cuore oscuro della sua tana.
In quest’ottica il film è una stratificata fiaba dark su un’innocente che approda in una città caotica e rutilante rischiando di perdere ciò che ha di più prezioso: se stessa (e la salute mentale); una Justine corrotta dalle seduzioni estreme di De Sade, attratta dalle decadenti atmosfere dei locali notturni di Soho. Ma Ultima Notte a Soho è anche il racconto della perdita dell’innocenza, nonché un viaggio trascendente nelle paure che attraversano – e scuotono – il femminile dalla notte dei tempi; incubi capaci di emanarsi sconvolgendo l’esistenza delle protagoniste.
Ed ecco quindi che il doppio, che si ammira nel riflesso dello specchio, come pure il ruolo del sogno e del perturbante si rivelano le chiavi di lettura ed interpretazione ideali del film di Wright: Eloise/Ellie (“doppia” già nel nome) segue come un riflesso la giovane Sandie/Alexandra nella sua lenta discesa in un torbido maelstrom popolato da delusioni, sconfitte, uomini pronti a fiutarla come lupi cattivi sotto mentite spoglie; le due finiscono per trasformarsi così in un doppelgänger, un doppio spettrale l’una dell’altra, immagini che si riflettono di continuo in specchi che immortalano il tempo cristallizzando la vita… quanto la morte.
E lo specchio, la presenza costante di una moltitudine di superfici riflettenti nel corso del film, non fa che rimandare all’importanza dello sguardo in Ultima Notte a Soho: gli occhi, specchi dell’anima, si evitano fino ad incontrarsi e infine intrecciarsi in sguardi nervosi e sfuggenti, con il passato che si specchia nel presente riconoscendosi. E sono sempre gli occhi a rivelare la verità di un delitto brutale avvenuto quasi sessant’anni prima, nel cuore pulsante di quella Swinging London che attraversa ancora, come un brivido febbricitante, la vita odierna di Londra e quella della giovane Eloise (che deve il suo nome, ancora una volta, ad una canzone del 1968).
Come la Alice di Carroll è in grado di oltrepassare – e infine rompere – lo specchio, così Ultima Notte a Soho è capace di attraversarlo ribaltando il paese delle meraviglie, che si trasforma lentamente in un caleidoscopio acido di perturbanti freudiani, unheimlich dell’inconscio, incubi che deturpano la realtà portando a galla le nostre paura inconfessabili e recondite, recuperando in tal modo il vero significato del genere thriller/horror inteso come lente deformate del reale, capace di amplificare la voce di timori sopiti nelle profondità più nascoste della nostra psiche.