Sono due le cose da sottolineare subito, parlando di Twisters, in sala il 17 luglio per Warner Bros., regia di Lee Isaac Chung e con Glen Powell – l’inarrestabile Glen Powell, al momento – Daisy Edgar-Jones, Anthony Ramos, Maura Tierney e Sasha Lane. La prima è che il film, in controtendenza con le peggiori abitudini del cinema commerciale americano, è un sequel che non ha fretta di arrivare. Lontano 28 anni dall’originale, che si chiamava Twister (1996), era diretto da Jan de Bont e interpretato da Bill Paxton e Helen Hunt. Nel cast dei comprimari – da urlo – figuravano anche Philip Seymour Hoffman e Paul Giamatti. Effetti speciali pazzeschi, combinava le forme del thriller, del disaster movie e della commedia romantica e per molto tempo è stato l’ultimo blockbuster davvero originale a sbancare il box office americano.
Segue l’era del cinema copia e incolla, tra serialità esasperata e apoteosi delle proprietà intellettuali. Solo un altro grande classico, ci ha messo più tempo a trovare la sua strada. Si tratta di Top Gun: Maverick (2022) – Glen Powell c’era anche lì, curiosa coincidenza – e come per Twisters il soggetto portava la firma di Joseph Kosinski. Per questo (secondo) atteso ritorno, lo sceneggiatore americano rispolvera stili e atmosfere del decennio che fu – gli anni ’80 di Maverick diventano i ’90, seconda metà, di Twister – cercando di bilanciare nostalgia, intelligenza e azione. Rifiuta, a livello di struttura, il plagio spudorato, puntando piuttosto su un equilibrio ambiguo. Twisters è una storia autonoma e indipendente rispetto al primo film; quanto al resto (tono, atmosfera), gli ruba tutto o quasi. Si scorda solo di una cosa, lascia da parte la commedia romantica, ma su questo sarà meglio tornare più tardi. Ora l’importante è concentrarsi sul secondo elemento di immediato interesse del film: il profilo (autoriale, indie) del suo regista, Lee Isaac Chung.
Spazi sconfinati nel cinema di Lee Isaac Chung
Gli spazi larghissimi dell’entroterra americano (siamo in Oklahoma) non sono una novità per il cinema di Lee Isaac Chung. C’erano anche nel precedente, bellissimo, fortunato (un Oscar) Minari. Proprio come in Twisters, la sterminata vastità americana e una famiglia in subbuglio giocavano un ruolo importante nel film del 2020. E la chiave di molto, se non tutto, andava cercata nella problematica ma necessaria dialettica uomo-ambiente. In quel caso, però, lo spazio era molto più connotato, fisicamente e culturalmente. Di sogno americano e del conflitto tra radici (statunitense e sudocreana) si parlava, e la famiglia era una vera (orribile aggettivo da usare, qui) famiglia, non il clan di pazzi ma adorabili cacciatori di uragani posseduti da un senso furioso e masochistico di attrazione verso il pericolo.
L’Oklahoma di Twisters è, a suo modo, uno spazio dal valore più sfumato, universale, rispetto a quello di Minari. Ma il conflitto – come l’uomo armonizza passioni e bisogni all’ambiente circostante – è lo stesso. Lee Isaac Chung mette alla prova il suo temperamento autoriale – qui sta l’interessante anomalia – misurandosi con una proposta che lo allontana dalla comfort zone, lo costringe a snaturarsi, però senza tradirsi mai. Una proposta meno sofisticata nella confezione, meno esigente nei contenuti, ma non banale. La sfida è cucinare un sequel che tenga insieme tutto, l’adrenalina e la profondità.
La sfida per il film comincia scegliendo da che parte stare: la parte di Kate (Daisy Edgar-Jones), giovane scienziata e cacciatrice (domatrice, preferisce) di uragani. Un’ambizione importante, accompagnata da una volontà di ferro e un grande coraggio. Vuole spingersi fino al cuore della tempesta per studiare, capire e – perché no – fermare l’uragano. Letteralmente spegnerlo, per salvare vite umane e costringerci a riconsiderare il nostro rapporto con la natura. Kate si lancia all’inseguimento di quello che si scoprirà essere un EF-5, il più pericoloso di tutti, insieme a un gruppo di ricercatori e amici. Le cose vanno male, molto, ne esce disillusa e travolta di sensi di colpa.
Cinque anni dopo, un vecchio amico, Javi (Anthony Ramos), la pesca dalla routine newyorchese in cui si è nascosta per lenire il dolore e la porta in Oklahoma per cacciare ancora. Ma non è, non sono, più soli. Il business della meteorologia ha dato la stura a una sorta di folle competizione. L’approccio rigoroso, scientifico – e qui e là un colpo di genio – di Kate trova un ostacolo (e qualcosa in più) nell’esuberanza di Tyler (Glen Powell), chiassoso e pirotecnico youtuber. Il tipo di pazzo scatenato che insegue il vortice per lanciarci dentro fuochi d’artificio, giusto per vedere l’effetto che fa. Ogni cosa è spettacolo, in America.
Per capire Twisters, bisogna ricordare il film del ’96
Anche Twisters mette al centro della storia un uomo e una donna, speculari negli interessi, pericolosamente simili nelle passioni, caratterialmente agli antipodi. Come il film del 1996, cerca la sua verità emotiva nel conflitto tra gli opposti (e relativa attrazione). Manca, al sequel, la tensione, l’esteriorità brillante della commedia romantica, l’intreccio amoroso propriamente detto. Tutto è sottilmente accennato e allusivamente congegnato, lasciando allo spettatore il compito di riempire il vuoto della storia con la sua immaginazione. Lavorando al posto dei protagonisti.
È il primo ruolo veramente importante, al cinema, per Daisy Edgar-Jones. Da Normal People in avanti, non c’è stato niente di così grande per lei. Regge bene il test blockbuster, ha una grazia e una fragilità che legano con l’azione e un’eleganza innata (di modi, di pensieri), mai imposta sulla storia a tradirne il cuore brutale e adrenalinico. Partecipa, il film, dell’ascesa inarrestabile del divo (in essere) Glen Powell, a conferma di uno charme malandrino e autoironico, a metà strada tra glamour tradizionale e anima popolare. Viene da pensare, guardando muoversi il suo Tyler, cowboy-youtuber spaccone ma (scopriremo) dal cuore d’oro, a un protagonista di screwball comedy calato, forse con la sua complicità, in un western polveroso: va detto che funziona. Questo eroe dei due mondi è davvero da tenere d’occhio.
Lee Isaac Chung è un regista intelligente e non sfida l’originale sul suo terreno. Non è una prodigiosa innovazione materiale a fare la parte del leone, qui. La tempesta infuria e il suo potenziale spettacolare resta innegabile, ma i passi avanti (tecnologici) rispetto al primo capitolo non sono poi così marcati. Ogni cosa, nel film, partecipa di una doppia tensione: replicare il mood di Twister, riscrivendone la storia; lavorando, stravolgendolo, sul mix di generi. Se la commedia romantica perde molta dell’originaria centralità, è perché a sostituirla arriva un’analisi sfaccettata delle conseguenze del passaggio dell’uragano su luoghi e persone. Conseguenze materiali, l’impietoso day after, le città distrutte, vite e famiglie spezzate. E psicologiche, la lotta di Kate per riprendersi la sua vita e le sue passioni.
Twisters non ha, non potrebbe essere altrimenti, la freschezza (narrativa, estetica, tecnologica) del predecessore vecchio quasi trent’anni. Formula che vince, per una volta si cambia. Attenuato il romanticismo, si insegue un’introspezione maggiore – anche se l’ambiguità del cacciatore di uragani e del suo desiderio/ossessione di sfidare l’imprevisto potevano essere più approfonditi – addirittura facendo satira, anzi, attaccando apertamente, i guasti di un capitalismo che sa dare valore a tutto tranne la vita umana. Flirta con l’introspezione, aggiunge un cuore sociale, non dimentica lo spettacolo, perde qualcosa in termini di pura originalità; a conti fatti, un sequel solido.