Raccontare la realtà quotidiana attraverso le immagini che scorrono sullo schermo d’argento, elevando il cinema a canale privilegiato per veicolare il proprio, personalissimo, punto di vista: spesso è proprio questo aspetto che distingue gli autori nel mare magnum di registi, sceneggiatori e addetti ai lavori che contribuiscono alla riuscita della “macchina meravigliosa” che confeziona illusioni in movimento. L’autore ha una visione ben specifica, personale, filtrata attraverso il proprio vissuto personale e cerca di plasmare ciò che lo circonda in quest’ottica, realizzando alla fine dei film ben riconoscibili che portano il suo marchio inconfondibile.
In Italia abbiamo avuto, soprattutto nel corso degli anni ’50 e ’60 del novecento, una vera e propria “politica degli autori” che ha definito i contorni della nostra industri cinematografica, nobilitandola in tutto il mondo: Fellini, Rossellini, Germi fino ad arrivare – con un brusco salto temporale – agli attuali Sorrentino e Garrone, pur non dimenticando la parentesi più pop e rivoluzionaria degli anni ’70, quando molti “mestieranti (di lusso)” come Fulci, Argento, Lenzi (e tanti altri) sono diventati, con lo scorrere del tempo, delle icone imprescindibili della pop culture di genere. Molti autori conservano una voce personale pur non scrivendo necessariamente, di proprio pugno, le opere che realizzano – come, ad esempio, succede con Garrone o Sorrentino – ma ci sono anche degli esempi che consentono, ai prodotti finali, di assumere le dimensioni di opere “intime”, rappresentazioni del mondo privato del loro creatore.
Quando Nanni Moretti si affacciò nel cinema italiano degli anni ’70, fu da subito evidente la sua capacità di raccontare un’intera generazione attraverso uno sguardo ironico, sarcastico, a tratti caustico: dal suo debutto autoriale con Io sono un autarchico nel 1976, Moretti non ha mai smesso di riflettere sul mondo circostante e sul suo microcosmo emotivo (ed emozionale), come ha dimostrato con l’ultimo Il Sol dell’Avvenire (2023) nel quale cita se stesso e i suoi cult aggiornandoli con il solito senso dell’umorismo. Non a caso si pensa proprio a Moretti vedendo Troppo azzurro, l’esordio del giovane Filippo Barbagallo, che approderà nelle sale dal prossimo 9 maggio.
Lo sceneggiatore/regista e attore si divide in tre esattamente come ha (quasi) sempre fatto l’autore di Brunico, creando un alter ego – tale Dario – talmente forte e personale da far risuonare la propria voce “scomposta” come accadeva con il Michele Apicella di Moretti, fil rouge di quasi tutte le sue opere più famose. Ma lo sguardo di Barbagallo, dopo una prima analisi, sembra essere affascinato dall’imprinting creativo di altri modelli statunitensi, simbolo di un mondo indie spesso nevrotico, insicuro e mercuriale, rappresentato sullo schermo tanto da Woody Allen quanto dai film della coppia Noah Baumbach-Greta Gerwig.
Immortalare il coming of age della Indie Generation
In Troppo azzurro, la macchina da presa segue la lunga estate di Dario (Barbagallo), un venticinquenne romano che vive ancora con i genitori. Il ragazzo è un tipico esponente di quella Generazione Z sulla quale gravita ancora la presenza “ingombrante” dei Millennials, collocandoli ad un bivio esistenziale: nello specifico, Dario è ancora adolescente e insicuro, ma non abbastanza grande da comportarsi come un vero adulto. Sempre legato agli stessi amici, quelli del liceo, trascorre le sue calde giornate estive girando per la città in motorino, oppure raggiungendo i suoi compagni in giro o al mare nelle giornate più torride. I suoi genitori, come quelli dei suoi amici, non sono di sicuro più maturi di lui, con le loro fragilità e il loro disorientamento. Quando nella sua vita irrompono Lara e Caterina (Martina Gatti e Alice Benvenuti), le due ragazze che gli piacciono ma che non lo degnano di uno sguardo, riuscirà mai a superare la timidezza compiendo una piccola follia, per rendere in tal modo la sua estate indimenticabile?
Già il titolo permette allo spettatore di immergersi nel profondo del microcosmo di Dario, un universo che occhieggia alle torride giornate descritte così bene da Paolo Conte nella canzone “Azzurro”, tra pigri voli pindarici e paesaggi urbani trasfigurati dal solleone. Barbagallo che si aggira per la città in motorino ricorda il Michele Apicella di Moretti, ma una Roma assolata nei suoi grandi spazi verdi fa subito pensare al Verdone di Un sacco bello, altro coming of age per frammenti ed episodi, cronaca di un’estate di caratteri (e caratteristi) di un’Italia che fu. In questa dimensione sospesa – come, da sempre, lo è quella estiva – si muove Dario: smarrito, alla ricerca di sé, pronto a stringersi alla “coperta di Linus” delle propri sicurezze, il giovane non ha ancora superato la boa dei trent’anni, è un esponente della “prima linea” della Generazione Z, quasi un anello di transizione con lo spleen sarcastico dei Millennials più disillusi; troppo giovane per essere un adulto saggio e maturo, ma troppo grande per poter essere considerato ancora un eterno adolescente, Dario guarda il mondo attraverso la lente dei propri occhiali da vista, regalando allo spettatore la sua personalissima versione di fatti, persone e situazioni.
Dentro l’esordio di Barbagallo c’è la voglia di immortalare, attraverso istantanee pop e colorate, l’incessante coming of age di un’intera generazione che può essere considerata, a tutti gli effetti, come una Indie Generation, una zona di confine nuova – tra mondi già consolidati – nella quale molti di noi finiscono per muoversi, accomunati da un sentire comune espresso attraverso un’estetica e un gusto figlio di un genere – l’Indie – che ha creato una propria nicchia definita tanto nella musica quanto nel cinema.
Raccontare l’oggi attraverso uno sguardo preciso
Dal punto di vista musicale, i quasi trentenni e quest’ultimi sono accomunati dall’ascolto di artisti (come Calcutta) che hanno definito i contorni e creato un genere in seno al mare magnum del pop (e del cantautorato) italiano, mentre a livello cinematografico le suggestioni provengono dal mondo che Greta Gerwig e il marito, Noah Baumbach, hanno contribuito a costruire attraverso opere cult come Frances Ha, Mistress America o Lady Bird. Un canone che si esprime attraverso determinate scelte estetiche e stilistiche che Barbagallo sembra conoscere e riprendere per il suo film, giocando con le rigide coordinate spazio-temporali, inserendo mosaici di dettagli sullo schermo che infrangono l’inquadratura scomponendola, arricchendo ogni fotogramma di particolari che codificano un mondo di riferimento ben specifico, sottolineato dalla colonna sonora di Pop X che collega, definitivamente, l’Indie alla settima arte.
In Troppo azzurro lo sguardo leggero e trasognato di Dario/Barbagallo (personaggio e alter ego uno, “uomo dietro la maschera” l’altro) delinea così uno scenario da fumetto creando una sorta di Scott Pilgrim tutto italiano, (anti)eroe al centro delle avventure che si avvicendano nel suo universo stilizzato eppur così realistico, pop e patinato quanto basta per creare una perfetta sintesi estetica, manifesto dell’educazione sentimentale (e non) di intere generazioni alle prese con la difficoltà di crescere nel mondo reale. E come accadeva nei film di Woody Allen – come non pensare, infatti, all’Alvy Singer di Io e Annie? – Dario diventa simbolo e simulacro di un maschile contemporaneo, fragile e buffo, insicuro e in cerca di certezze ma soprattutto… del coraggio necessario per crescere. Perché compiere questo scarto e diventare adulti significa prendersi le proprie responsabilità e lasciarsi alle spalle quella comfort zone popolata di volti amici, storici legami, genitori troppo affettuosi e “ingombranti”, avviandosi nel territorio semi-sconosciuto dell’età adulta, attraversando quella zona della paura cha fa da apripista per una crescita consapevole, incessante e inevitabile.
Troppo azzurro è un coming of age a tutti gli effetti, moderno e ultra-contemporaneo, che riesce a focalizzare la propria attenzione su una storia particolare (e infinitesimale) per raccontare qualcosa di più ampio, un intero universo emotivo provato da tanti giovani spettatori; la voce di Barbagallo diventa così un megafono ideale tramite il quale raccontare le angosce, i sogni e le difficoltà di intere generazioni che lottano per trovare loro stesse, identificando l’auto-consapevolezza e la conoscenza come il primo step fondamentale per la crescita, prima di affrontare un mondo reale sempre più cinico e gravido di difficoltà. A fianco a Dario ci sono altri volti giusti, quelli di Brando Pacitto, Martina Gatti e Alice Benvenuti, che popolano un mondo comune a molti spettatori, microcosmi ricorrenti di personaggi fissi che indossano maschere anche nel quotidiano: la crush inarrivabile dal gusto alternativo, il migliore amico eredità del liceo, la ragazza confinata in un’eterna situationship etc.
Realistico e stilizzato allo stesso tempo, lo stile narrativo di Troppo azzurro trasforma Barbagallo in una voce contemporanea dalla forte identità, che non si limita a raccontare ciò che vede ma mette la propria sfera emotiva al servizio degli altri, in un racconto che trascende i confini tra particolare ed universale, consacrandolo all’autorialità. E proprio per questa capacità di raccontare l’oggi attraverso uno sguardo preciso viene affiancato a nomi quali Moretti o Massimo Troisi, ultimi esempi di un’autorialità esistenzialista e a tratti filosofica che ha definito i confini del cinema italiano contemporaneo, creando un vero e proprio filone nel quale le difficoltà quotidiane vengono esorcizzate attraverso la risata malinconica.