È ufficiale. La macchina da presa di chi, talento giovane o meno, vuol buttar giù “schizzi” di borghesia in nero forse non è più guidata dal ricordo di Buñuel, Chabrol o di singoli, succosi “casi” (es. Pranzo reale di Mowbray): definitivamente rivalutati e attentamente studiati da vari autori (Rocco Moccagatta su tutti), sono i fratelli Vanzina i veri modelli, oggi. Il sospetto si era già fatto strada nello scrivente lo scorso anno con House of Gucci: ridondante, certo, eppure godibilissimo, soprattutto se visto attraverso la “lente” di alcuni film (Via Montenapoleone, I miei primi 40 anni, Miliardi) della coppia di registi, influenzata a sua volta dall’avida lettura dei reportages e dei romanzi di Renzo Barbieri.
In Triangle of Sadness quel sospetto trova ulteriore conferma. Difficile stabilire se sia una conquista o un passo indietro per l’attuale cinema d’autore. “Basta che funzioni”, recita una commedia di Woody Allen. E funziona, nonostante tutto. La quinta fatica (la prima, però, girata in lingua inglese) di Ruben Östlund, classe ’74, sembra, infatti, “nutrirsi” dello stesso microcosmo modaiolo di fine millennio, stigmatizzato e insieme affettuosamente “assolto” dal duo romano: dorato, orgoglioso, segretamente triste, dove tutto è una “balla” e il mondo “reale” (se mai questa parola ha ancora un significato) giace fuori dalla porta; gli stessi fotogrammi limpidi, quasi algidi (le immagini portano la firma del fido Fredrik Wenzel), immancabili “tormentoni” musicali (qui si ascoltano Lady di Modjo, Life di Des’ree), gli stessi arrampicatori sociali, mediocri intellettuali “che pagherebbero per vendersi”, industriali di dubbia legalità, le stesse intraprendenti ninfette che, aldilà delle apparenze e delle laide voglie di chi le circonda, ambiscono ad essere ben altro che “un corpo, un po’ di trucco, un bel vestito”. Insomma, sotto il vestito… un universo immenso in più. Una sonata, tre “movimenti”: Karl e Jaya, Sulla nave, L’isola.
Gli amanti che intitolano il primo movimento sono entrambi fotomodelli. Jaya lo ignora ma il suo nome è un epiteto di Durgå, dea inaccessibile: fra i tanti, il suo volto è il più minaccioso che la Divina Madre possa assumere. Calata, tuttavia, nel mondo moderno Essa non ricorre più ad armi quali lancia, arco e spada bensì… “Instagram”, défilés, un fisico insopportabilmente perfetto e occhi da triglia che la nostra non esita a sfoderare con Karl (Harris Dickinson) quando la carta di credito non può coprire il costo della cena. Sarà proprio il “magico” pezzo di plastica a far scoppiare un litigio tra i due. Nulla di cui preoccuparsi: una crociera con prezzi da tagliarsi le vene e tutto si sistemerà.
Secondo movimento. Effimere celebrità, matrone texane “con la pelle trasparente come un uovo di serpente”, un’anziana coppia (Amanda Walker, Oliver Ford Davies) “discepola” dell’Albertone di Finché c’è guerra c’è speranza, accompagnatrici in trikini e addirittura un magnate del concime (Zlatko Burić): strani compagni di viaggio si sono scelti Karl e Jaya; perfino il comandante (Woody Harrelson) si sente più a suo agio chiuso in cabina a ubriacarsi piuttosto che “marciare” in mezzo a questo corteo funebre di prima classe. Notte tempestosa, bussola impazzita, onde alte come palazzi: in pochi attimi un banchetto luculliano si trasforma in una maratona di vomito, scivolante sulle note hardcore punk di New Noise dei Refused. I cessi esplodono in fontane di escrementi (una scena simile l’abbiamo vista ne Il volto di un’altra di Corsicato), i russi conoscono le massime di Reagan meglio di quelle di Trockij mentre i cinici yankees, rullino i tamburi, si convertono al socialismo. È stato bello sognare, non c’è più niente da fare: qualcuno, per favore, chiami i pirati somali ad affondare la nave. Detto, fatto.
Terzo movimento. Della “crociera-mondo” rimangono solo pezzi di legno, salvagenti e un battello con vettovaglie da razionare. Gettati su un isolotto rigoglioso, i naufraghi provano ad assegnarsi dei compiti. Con scarso esito. Prima governante vessata ora esperta pescatrice e cacciatrice, l’unica del gruppo che possieda tali doti, la filippina Abigayle (Dolly De Leon) non ci mette molto a diventare una guida. L’ultimo bengala illumina a giorno la battigia: c’è chi, come Therese (Iris Berben), ripete la stessa frase («In den Wolken», lett. “sulle nubi”) fino alla noia e chi, invece, sussurra nel buio il Pater Noster perché ormai, Heidegger già lo sapeva, solo un dio ci può salvare. E la passacaglia Sonnerie de Sainte-Geneviève du Mont de Paris di Marin Marais, tre note ripetute senza sosta, avvolge il tutto come una prigione sonora…
Rispetto a The Square, un passo indietro
Vincitore della Palma d’oro al 75mo Festival di Cannes, Triangle of Sadness diverte parecchio (o, meglio, si ride per non piangere), è innegabile. Due ore e mezza di proiezione e non una volta si avverte pesantezza, capace com’è lo svedese Östlund (autore della sceneggiatura) di dar forma ad ataviche inquietudini muovendo da situazioni ordinarie quando non proprio triviali, rammentando allo spettatore che “la parte oscura dell’Uomo, animale ed istintiva, coesiste perfettamente con la parte logica e razionale” (G. Sandri), portando così alle estreme conseguenze, visive e concettuali, ciò che in The Square occupava un breve ancorché memorabile episodio (l’artista concettuale che si fingeva scimmia, placcato da una folla ancor più scimmiesca per gesti e versi).
Peccato che, una volta accese le luci a fine serata, resti il forte dubbio di un’operazione più furba che davvero mordace, più generica che autenticamente misantropa, al tal punto smaniosa di diventare “di culto” che finisce per sortire l’effetto opposto, anche per il fatto di rubare a man salva (ben pochi se ne accorgeranno e il largo riconoscimento francese lo dimostra), specie nel capitolo “insulare”, da almeno un settantennio di cinematografia: se la spettrale crociera – con i suoi brindisi, le feste in vago odore orgiastico e l’equipaggio desideroso di fuggire da un mondo che sente estraneo ma della cui decadenza è in parte responsabile – viene da Foxtrot di Ripstein, la figura di Abigayle altro non è che la versione “matriarcale” del servo Crichton di Maschio e femmina di DeMille il quale mette in riga i ricchi inetti e procura loro acqua e cacciagione; la comitiva borghese che crolla miseramente di fronte a un paesaggio ostile e ad una ritrovata, tribale crudezza fa poi pensare a Sinners in Paradise di Whale e The Last Island dell’olandese Gorris. Non ultima, l’atmosfera generale da “allegoria apocalittica” è senz’altro debitrice de Il seme dell’uomo di Ferreri.
Intellettualismo per intellettualismo, citazione per citazione (comprese le plastico-grafiche: George Grosz, Duane Hanson), meglio allora Selvaggi (’95): l’immagine conclusiva della “zattera tricolore” che si perde nella nebbia è quanto di più dolente abbiano creato i Vanzina. Un ultimo abbraccio va a Charlbi Dean (1990-2022), modella e attrice sudafricana, volenterosa ma ingenua Jaya: aveva il sorriso di Catherine Rouvel, l’innocente impudicizia e la bellezza plastica del corpo di Haydée Politoff. Troppo presto ci ha lasciato. Che riposi in pace.