I fratelli Jean-Pierre e Luc Dardenne sono, insieme a Ken Loach, tra i pochi registi capaci di raccontare la realtà attraverso i loro film: non solo un intento – ed un impegno – dal sapore documentaristico, ma la volontà di scavare nelle difficili pieghe del reale solo attraverso l’uso del dettaglio rivelatore, crudo e affilato, perfettamente in linea con una regia asciutta. I loro occhi non filtrano attraverso il cinema, ma affiancano lo scorrere delle immagini che costituiscono il quotidiano, immortalandole sullo schermo d’argento.
In questo senso, loro ultima fatica, Tori e Lokita – disponibile nelle sale dal 24 novembre -, rientra perfettamente nel corpus della loro filmografia: un’opera pronta a mostrare, tra dolcezza e crudeltà, la condizione dell’immigrazione moderna. Tori è un bambino-stregone scampato alle persecuzioni nel suo paese, mentre Lokita è una ragazza adolescente: i due sono giunti in Belgio dopo aver percorso un lungo viaggio in solitaria attraverso l’Africa fino ad approdare in Europa. Ora, però, la loro forte e consolidata amicizia è messa a dura prova dalle severe condizioni dell’esilio in cui vivono, tra difficoltà inimmaginabili e nemici che si annidano nelle pieghe della quotidianità.
La storia che attraversa Tori e Lokita conferma, ancora una volta, lo stile dei Dardenne: asciutto e mai incline ad un sentimentalismo gratuito, Jean-Pierre e Luc usano la macchina da presa come due occhi spalancati sulla realtà, fino a sovrapporsi progressivamente a quegli degli spettatori che, impotenti, non possono fare altro che spiare in silenzio, scrutando nelle pieghe oscure delle esistenze dei due protagonisti. Tori è un bambino-stregone scappato dall’Africa perché perseguitato; Lokita è un’adolescente scappata in Belgio per dare un futuro migliore a lei, ai suoi fratelli e alla madre. Ma sopravvivere in un paese straniero si rivela sempre come un viaggio pericoloso nell’ignoto, negli abissi scuri della povertà, della rassegnazione e della libertà negata.
Tori e Lokita non chiedono altro che un posto dove vivere in pace, la prospettiva di un futuro migliore che spesso viene negata come, del resto, anche i sogni più semplici, schiacciati dall’orrore brutale del quotidiano. I due non sono fratello e sorella di sangue, ma lo sono nello spirito: non hanno nessun altro affetto stabile se non loro stessi, e farebbero di tutto per aiutarsi a creare delle aspettative migliori.
Intercettare sempre l’esistenza degli ultimi
La sceneggiatura dei fratelli Dardenne dichiara subito il proprio focus sin dai titoli di testa, filtrando la storia di Tori e Lokita solo attraverso i loro occhi, affondando nelle profondità dei loro timori, delle emozioni contrastanti che li attraversano e nei quali lo spettatore finisce per scivolare progressivamente, man mano che il film avanza.
I Dardenne si riconfermano anche cantori della vita degli ultimi, rappresentati da questa elegia sospesa tra rabbia e tenerezza che è la loro ultima opera; i due registi sono pieni padroni di una grammatica filmica che adottano scientemente per cercare di analizzare la complessità di un mondo via via sempre più stratificato, crudele ma capace ancora di attimi di temporanea grazia, ben rappresentati – in Tori e Lokita – dall’incrollabile tenerezza che lega i due fratelli acquisiti, custodi l’uno dell’altra.
Con questo film i Dardenne aggiungono un nuovo tassello al ricco mosaico che hanno iniziato a comporre fin dal 1987, strumento necessario per costruire una memoria collettiva, tessere che compongono una macro-istantanea su una realtà in continuo divenire che intercetta sempre l’esistenza degli ultimi, di coloro che purtroppo vengono relegati (fin troppo spesso) dallo scorrere dei giorni alle corde del ring del destino.
Lottatori o pugili in difficoltà, alla ribalta del match decisivo che decreterà una vittoria luminosa o una cocente sconfitta, malinconica e struggente quanto l’eterna lotta per la sopravvivenza nell’aggressivo “cane-mangia-cane” nel quale siamo immersi tutti i giorni.