Nel 1937, un misconosciuto professore di Oxford diede alle stampe un libro che, ispirandosi ai miti e alle leggende nordiche, raccontava la storia di “uno” hobbit che dalla mite Contea, dove abitava, si trova catapultato in un’avventura straordinaria, che lo porta persino a vedersela con un terribile drago. Quel professore che fece il suo esordio nel mondo della letteratura era John Ronald Reuel Tolkien, e probabilmente mai si sarebbe sognato che quel libro scritto quasi per gioco sarebbe stato il primo tassello non tanto nella costruzione di un universo narrativo, ma di una vera e propria realtà (immaginifica) alternativa, che ha alimentato le fantasie di milioni di lettori prima e, in anni più recenti, anche di tantissimi spettatori cinematografici grazie a Peter Jackson e alle sue trilogie de Il Signore degli anelli e Lo Hobbit.
È proprio Lo Hobbit (libro) che, nonostante nel tempo sia stato fagocitato dalla più celebre e complessa trilogia dell’anello, rappresenta comunque un punto di svolta nella vita di Tolkien scrittore, e naturalmente in quella della storia della letteratura. La storia del giovane Bilbo Baggins e del suo intrepido viaggio verso Erebor, rappresenta sotto un certo punto di vista un punto di partenza per la carriera letteraria di Tolkien (in fin dei conti è pur sempre il suo esordio letterario), ma osservato da un’altra prospettiva, può anche essere visto come un punto di arrivo dell’esperienza di vita dell’uomo dietro lo scrittore, una sorta di risultato di un percorso umano oltre che artistico.
È da questo presupposto che prende le mosse il film Tolkien, diretto dal regista finlandese Dome Karuski, biopic che si pone l’obiettivo di rivelare allo spettatore quanto le opere fantasy di Tolkien abbiano attinto dall’esperienza privata, dalla vita vissuta dello scrittore britannico. In particole, il film si concentra su un momento ben preciso della vita di Tolkien, quello della traumatica esperienza della Prima Guerra Mondiale, salvo concedersi numerosi flashback che conducono lo spettatore alla scoperta dell’infanzia, adolescenza e prima età adulta (gli anni pre-universitari ed universitari), ma non tanto per scandagliare la psicologia del personaggio o descrivere una sua evoluzione, ma per ribadire il legame indissolubile tra realtà e processo creativo.
Dopo essere giunto in Gran Bretagna dal nativo Sud Africa, il giovane Ronald si trasferisce insieme alla famiglia (madre e fratello), a malincuore, dalla campagna nella città industriale Birmingham. Dopo la morte della madre – cagionevole di salute -, il futuro scrittore viene adottato, insieme al fratello, da una ricca esponente della High Class britannica che ospita all’interno della sua magione anche un’altra orfana, Edith, di cui ben presto Ronald si innamora. Nel frattempo, il giovane Tolkien, diligente e portato per gli studi, riesce ad entrare in una scuola esclusiva dove conosce quelli che diventeranno i suoi migliori amici: Geoffrey Bache Smith, Robert Q. Gilson e Christopher Wiseman.
Passata l’adolescenza, l’ormai adulto Ronald (un convincente Nicholas Hoult) intraprende gli studi universitari a Oxford, pur senza dimenticare l’amore della sua vita Edith (una dolcissima Lily Collins), passando dallo studio dei classici greci e latini a quello dei linguaggi, vera e propria passione che porterà Tolkien a compiere una delle sue più grandi fatiche di scrittore: la creazione di lingue fittizie, a cominciare da quella elfica, il cui alfabeto comparare anche in appendice a Il signore degli anelli. Gli anni giovanili di Tolkien e delle persone a lui vicine – gli amici, la stessa Edith – sono però sconvolti dal primo conflitto mondiale: quella inutile strage (come la definì Papa Benedetto XV nel 1917) che rappresenta una vera e propria spada di Damocle che piomba non solo sulla vita dell’aspirante scrittore, ma anche su un’intera generazione.
L’uomo dietro lo scrittore, finzione letteraria e cruda realtà (ispiratrice). Sono le forze opposte che alimentano la narrazione di Tolkien, un film biografico che sarebbe piuttosto convenzionale, se non fosse per quella sua caparbia volontà di scandagliare la vita del protagonista per rintracciare le radici creative di uno dei più grandi letterati del ‘900, le cui storie non solo fanno ormai parte dell’immaginario collettivo (da più di mezzo secolo!), ma continuano ancora ad essere materiale narrativo vibrante, vivo e talmente attuale da ispirare la stessa letteratura, ma anche il cinema e i suoi “derivati” (basti pensare alla prossima serie tv dedicata a Il Signore degli Anelli annunciata da Amazon Prime).
La cosa più interessante del film di Dome Karukoski, infatti, non è tanto il mero racconto della vita dello scrittore britannico, quanto la capacità di mostrare gli eventi narrati come uno specchio di quelli che milioni di lettori avrebbero poi scoperto attraverso i suoi libri. Così, la bucolica campagna inglese dove Ronald passa parte della sua infanzia assomiglia molto alle Contea di Frodo e Bilbo, mentre l’industriale Birmingham dove il protagonista è costretto a trasferirsi insieme alla famiglia assume le fattezze di una fucina diabolica simile a quelle alimentate dagli orchi nella Mordor raccontata nella trilogia dell’anello. E che dire, invece, dell’amore molto più platonico e poetico che carnale e reale di Ronald ed Edith, assai simile a quello tra il mortale Aragorn e l’elfa Arwen, o dello spirito di fratellanza che lega il protagonista ai tre amici e al loro triste ed “avventuroso” destino che li porterà, un po’ come Frodo, Sam, Pipino e Meriadoc, a lasciare l’ovattato mondo di Oxford, per andare a sconfiggere le forze del male percorrendo un periglioso viaggio attraverso l’orrore della Prima Guerra Mondiale?
Ed è proprio nelle coinvolgenti sequenze belliche – in realtà molto poche, e condensate soprattutto nella parte finale -, che il film riesce in maniera convincente (anche se un po’ schematica) a limare definitivamente la distanza tra realtà e immaginazione, descrivendo l’esperienza bellica attraverso gli occhi del protagonista. Così l’orrore della guerra assume, attraverso lo sguardo del giovane Ronald, le forme di un incubo ad occhi aperti dove la No Man’s Land dilaniata dall’artiglieria degli eserciti che si stanno scontrano e disseminata di corpi sventrati diviene paradossalmente anche il terreno fertile per far germogliare una realtà alternativa dove la guerra si trasforma da insensato evento profondamente e tragicamente umano a proiezione di fantasie che rappresentano un rifuggire da quell’incomprensibile e traumatico evento. Così, ecco comparire sui campi di battaglia draghi sputafuoco, nobili cavalieri in sella al loro destriero che, impavidi, sfidano il fuoco incrociato, e poi ancora inquietanti figure incappucciate che tanto somigliano ai Nazgûl che Tolkien poi descriverà nel suo libro più celebre, e che si muovono sinuosi, silenti e minacciosi sul grigio campo di battaglia.
Nel complesso, Tolkien è lungi dall’essere un film totalmente riuscito, ma è comunque una pellicola godibile, scritta decisamente con maestria (e un po’ di furbizia) dagli sceneggiatori David Gleeson e Stephen Beresford. Certamente non brilla per originalità e trascura molti aspetti interessanti della vita dello scrittore, a cominciare dal tema del linguaggio, affrontato in maniera sbrigativa durante il corso della narrazione, ma rimane un’opera sincera, che coinvolge lo spettatore e tutto sommato riesce nel suo intento: condurre all’origine della creazione di una realtà immaginifica che ancora oggi continua ad appassionarci.