Ci sono film che vivono di modeste ambizioni e di modeste realizzazioni. È il caso di The Performance, opera piccola, che per aspetto patinato e contenuto chiama come suo spazio ideale i quattro contorni di una tv. A dirigerla c’è Shira Piven, che la scrive anche assieme a Josh Salzberg partendo da un racconto di Arthur Miller.
Al centro dell’intreccio mette invece Harold May (Jeremy Piven, fratello di Shira), ballerino di tip tap statunitense ed ebreo. Gli anni sono quelli della seconda metà del 1930, con lo scenario mondiale sul quale iniziano ad affacciarsi ogni giorno con un po’ più di insistenza l’ombra di Hitler e della Germania nazista.
Gli ebrei che possono stanno lasciando la terra tedesca, mentre Harold si appresta invece a fare il cammino inverso: all’orizzonte c’è infatti la possibilità di una tournée europea per tirare su qualche quattrino. Si imbarcano assieme a lui l’ex fiamma Carol (Maimie McCoy) ed i compagni di danza Benny (Adam Garcia) e Paul (Isaac Gryn).
Un’operetta morale
Il gruppo viaggia e si esibisce tra le capitali del vecchio continente, raccogliendo meriti misti. Perlomeno fin quando Harold non viene avvicinato da un misterioso individuo. Si presenta come Fugler (Robert Carlyle), facoltoso mecenate che invita il ballerino ed il suo gruppo nel cuore ribollente d’Europa: Berlino. A partire da qui, The Performance si disvela strato dopo strato con l’intenzione di farsi operetta morale.
Harold è attratto dalle ricche possibilità economiche offerte da Fugler, anche nel momento in cui la sua identità si rivela essere quella di un gerarca nazista molto vicino alla cerchia di Hitler. E lo stesso fuhrer arriva a comparire in scena nella sequenza probabilmente più riuscita del film, in cui si rivela ospite scalmanato, squilibrato e infantile di quell’esibizione di cui sono protagonisti Harold e i suoi.
La pellicola, passata in anteprima alla 18esima edizione edizione della Festa del Cinema di Roma, si configura qui come bilancia sui quali piatti poggiare l’avidità e ciò che alla lunga questa comporta. Infatti ad equilibrare il tutto c’è il sempre più deciso odore di un destino rovinoso che si avvicina e lancia avvisaglie che Harold proprio non vuole piegarsi a cogliere. Nemmeno quando finiscono per rischiare la pelle gli altri membri del quartetto o quando lo stesso Harold è sottoposto agli assurdi esami “medici” per decretare la sua appartenenza o meno alla razza ariana.
La compostezza di una vita morigerata
Il lavoro di Piven ragiona e discute questo contrappasso con una sceneggiatura a grana grossa, mai interessata davvero a nascondersi sotto la superficie dalla sua ben chiara evidenza. Usa mettere in incidenza la storia individuale con quella collettiva, cercando il punto di incontro da qualche parte tra il dramma e il didattico. È una formula che funziona se la si concepisce esclusivamente in funzione del suo atteggiamento volto alla virtù che scaccia vizi e tentazioni, alla messa in guardia di Icaro e delle sue ambizioni.
Non è infatti un caso se The Performance si chiude su un quadretto familiare, sulla rassicurante immagine di un futuro garantito dalla compostezza di una vita morigerata. Il film di Piven non ha in realtà molto altro da dire. Lo si diceva in apertura, non è un lavoro dai particolari guizzi. In questo è perlomeno coerente con la storia e gli insegnamenti di cui vuole farsi portavoce, non arrischiandosi mai in passi troppo lunghi e fuori portata.