The Lighthouse è il nuovo film che segna il ritorno, sul grande schermo, del talentuoso genio di Robert Eggers. Anni dopo il folgorante debutto con il disturbante horror The Witch (2015), il regista firma a quattro mani con il fratello Max la sceneggiatura di questo ispirato orrore d’autore e di genere, sofisticato e post-espressionista, figlio del guazzabuglio creativo del post-modernismo che ha permesso di mescolare insieme suggestioni del cinema classico, citazioni, esperimenti visivi ed estetici pervasi da rimandi al mondo della psicanalisi, con i suoi complessi simbolismi ed archetipi.
Il film racconta una storia ambientata nel 1890 nella Nuova Scozia: un vecchio guardiano del faro di nome Thomas Wake (Willem Dafoe) si ritrova a collaborare con un giovane di nome Ephraim Winslow (Robert Pattinson, futuro Batman) su una remota e misteriosa isola del New England (proprio là dove Eggers aveva già ambientato The Witch). In un’atmosfera spettrale e angosciosa, complici la solitudine, l’alcol e le avverse condizioni climatiche, la stabilità mentale dei due uomini viene messa a dura prova tanto da cominciare ad avvistare strane presenze sugli scogli che mettono a rischio la loro incolumità, così come i segreti che entrambi custodiscono…
Per definire, dopo un primissimo impatto, The Lighthouse, l’unico termine calzante sembra essere proprio “disturbante”: usato già precedentemente per descrivere il debutto di Eggers, questo aggettivo sembra essere la “via preferenziale” usata dal regista per (re)interpretare la realtà fenomenica. Sposando le filosofie – e le ricerche – tanto di Jung quanto di Freud, il risultato finale è un complesso compendio psicanalitico, una pittura ottocentesca dove niente è come sembra e i correlativi oggettivi diventano la costante dell’interpretazione.
Ogni oggetto, ogni situazione, personaggio o azione compiuta nell’horror – drama – psicologico rimanda a qualcos’altro, ad elementi diversi che appartengono a un altro piano di lettura. Il faro, le scene di auto-erotismo di Pattinson, il rapporto conflittuale tra gli uomini e il loro legame con la figura della sirena sono incarnazioni dell’eterno assunto freudiano del sesso come archetipo “causa” di molti comportamenti umani e di molte nevrosi, elemento che va a rafforzare la percezione generale di The Lighthouse come di un grande perturbante freudiano – unheimlich – tradotto in immagini, una realtà distorta non solo nel significato ma, soprattutto, dal punto di vista tecnico: le immagini in formato 4:3 (rapporto 5:4) e su pellicola 35 mm, con le bande nere ai lati e in un bianco e nero mozzafiato.
Il bianco e nero, appunto; i tagli di luce che squarciano le ombre avvolgenti, costanti, compagne solitarie delle esistenze alla deriva dei due guardiani del faro condannati a confrontarsi con il peso delle proprie colpe segrete. Un uso estetico – ed estetizzante – della fotografia che ricorda il valore “morale” adottato dagli espressionisti tedeschi – un nome su tutti: Fritz Lang, ma anche Murnau con le sue sinfonie dell’orrore –, registi capaci di trasformare l’uso della luce in un riflesso della psicologia distorta dei protagonisti, proiezioni delle paure cieche e degli orrori che li dominano, finendo per tenerli sotto scacco.
I continui camera-look ai quali si abbandonano i protagonisti Dafoe-Pattinson sono trasgressioni delle regole base della settima arte, strizzate d’occhio al cinema classico – The Great Train Robbery di Porter –, figlie dell’anarchia ribelle del post-modernismo contemporaneo; il bianco e nero si sposa perfettamente con la lettura psicanalitica ma soprattutto con il racconto antico, con le leggende ancestrali come il mare a base di mostri, sirene, Kraken e piovre giganti; come se le fiabe avessero perso la loro rassicurante patina, contaminate dalla solitudine, dalla paura e dal peccato.
Il personaggio di Pattinson, Winslow, è un “cane di paglia” che cova sotto la tranquillità apparente orrori partoriti dalla mente; l’incontro con Wake/Dafoe – moderno Achab pazzo e ossessionato dai suoi stessi spettri – lo fa scivolare sempre di più in un torbido maelstrom di delirio e pazzia, dove i confini tra reale e immaginario si perdono fino a confondersi, rivelando l’intento più profondo di Eggers: ovvero quello di realizzare una grande allegoria della paura e della solitudine, dove la prima passa per la conoscenza di sé stessi e il terrore di scoprire, infine, qualcosa di spaventoso riflesso nello specchio.
Forse è proprio questo il ruolo del mito di Prometeo all’interno di The Lighthouse: annunciato da Wake in un primo momento, Prometeo – e il suo sfortunato destino – diventano la chiave d’interpretazione (più profonda e psicanalitica) di questo moderno instant cult, dove il genio di Eggers torna a flirtare con antichi folklori e suggestivi luoghi della sua memoria emotiva (il New England); le atmosfere degli orrori psicologi narrati da Lovecraft, Maupassant ed Edgar Allan Poe – fonte primaria d’ispirazione – vengono raccontate con nuovo smalto grazie soprattutto alle straordinarie interpretazioni di Dafoe e Pattinson, brutali ed inquietanti, fragili e sinistri come anime erranti immortalate nell’istantanea di una foto d’epoca, preludio ad un cieco orrore coltivato nel profondo di noi stessi.