I sogni sono il carburante dell’anima, il motore immobile che permette all’essere umano di continuare a vivere senza perire sotto i colpi inferti dalla realtà; i sogni sono tutto questo, e spesso sono stati l’essenza stessa della “mecca del cinema” americano e dell’industria audiovisiva.
Non sfugge a questa riflessione The Land of Dreams, il primo film di Nicola Abbatangelo che si colloca nel solco della tradizione più opulenta hollywoodiana, strizzando l’occhio al musical e al melò romantico, ma senza dimenticare la propria essenza europea. Un’identità che è ben sottolineata dalla presenza, nel cast, di molti volti noti del nostro cinema: Caterina Shulha (qui protagonista femminile accanto a George Blagden), Edoardo Pesce (Christian), Stefano Fresi (La donna per me), Carla Signoris (Le fate ignoranti – La serie) e Paolo Calabresi (Una famiglia mostruosa). Il film, presentato in anteprima italiana ad Alice nella Città (la sezione autonoma e parallela della Festa del Cinema di Roma), approderà nelle sale dal prossimo 10 novembre.
Nella New York degli anni ’20 – la famosa jazz age – Eva è una giovane immigrata italiana che lavora come lavapiatti nelle cucine del noto locale Choo Choo Train e che ha rinunciato al suo sogno più grande: diventare una cantante. Oggetto del desiderio di un malavitoso di quartiere, si innamora dell’affascinante pianista Armie, reduce della Grande Guerra, che vive recluso nella sua casa insieme al fratello e che nasconde un potere molto speciale: viaggiare all’interno dei sogni… Eva e Armie scopriranno insieme che realtà e sogno possono mischiarsi e diventare la ricetta giusta per la felicità.
Un’estetica convenzionale e cristallizzata
The Land of Dreams gioca con un immaginario classico e ormai consolidato, a tratti quasi usurato per via delle molteplici sfumature attraverso le quali è stato declinato: il canone del musical opulento viene adattato ad una storia esile e archetipica, un copione che mette in scena un “ballo delle maschere” con caratteri fissi che si avvicendano sullo schermo d’argento, coinvolti in un valzer degli addii dove l’amore è il motore immobile e lo slancio verso i propri sogni la rotta da seguire, il percorso nel quale restare per non perdere la bussola (emotiva) della navigazione.
Le premesse, seppur non brillanti e poco originali, servono ad Abbatangelo per orchestrare una sinfonia magniloquente di immagini che affondano nel canone del sogno e, più in generale, dell’immaginario onirico: dal punto di vista estetico, The Land of Dreams spinge al massimo l’asticella della creatività al servizio dell’intrattenimento, edificando mondi e costruendo un universo stilizzato ma opulento dove ogni dettaglio è al servizio della causa spettacolare, giustificando numeri e atmosfere da kolossal dell’âge d’or hollywoodiana. Ma a pesare progressivamente, man mano che lo storytelling si dispiega sullo schermo, è la mancanza di originalità di certe scene, situazioni o sequenze, apparentemente circondate da un velo opaco che avvolge lo svolgimento fino a congelarlo in uno schema ripetitivo e anacronistico, fuori dallo spazio, dal tempo e dal mercato attuali.
The Land of Dreams si sforza di essere un ambizioso musical in puro stile mecca del cinema a stelle e strisce, ricco di numeri canori e coreografie sull’arte del sogno, finendo però per sacrificare in tal modo l’originalità dei contenuti (e della forma) in nome di un’estetica convenzionale e cristallizzata, disseminata di stereotipi e topoi (di genere) che determinano le situazioni narrative ingabbiandole in prevedibili schemi fissi, banalizzando la forza del messaggio in uno slogan da schermo gigante.
The Land of Dreams finisce così per mutare in un divertissement di lusso per gli spettatori, nel quale ogni dettaglio è appagante per il piacere retinico e al posto giusto per colmare un senso di horror vacui, ma rimane immortalato nella ricerca costante di una propria specifica cifra stilistica, di un’identità forte da trasformare il proprio timbro e il proprio colore in una voce unica e sfaccettata.