A fine proiezione e a luci riaccese, la decima fatica del texano Wes Anderson, classe ’69, strappa subito una frase: «Inventivo, fascinoso ma… che diavolo era?». Calma, capovolgiamo la questione. Se, una volta tornati dal cinema, volessimo raccontare The French Dispatch al nonno o alla nonna (più semplice sarebbe stato invitarli allo spettacolo con noi!) a quali esempi e paragoni ricorrere perché capiscano meglio il film? Non è capzioso, badate: come afferma, orgogliosa, la madre di Sara (Betti Pedrazzi) in Figli di Mattia Torre la sala cinematografica o quel che resta di essa tiene grazie a loro. Un piccolo sforzo sarebbe, dunque, gradito.
Cari nonni, avete presente l’immancabile, sotto le feste, calendario dell’Avvento, in cui ogni giorno corrisponde a una piccola finestra che nasconde un ninnolo o un aforisma? Bene, rimpiazzate il calendario con la sezione interna di un edificio, disegnata con pastelli a cera, ospitante la redazione di un settimanale immaginario (che dà, appunto, il titolo all’opera) di cronaca, arte, costume e pettegolezzi di una altrettanto fittizia città d’Oltralpe, Ennui-sur-Blasé. Il gioco è praticamente fatto. Ciascun “vano” si aprirà davanti ai vostri occhi proprio come le finestrelle del calendario natalizio e le “figurine” lì racchiuse prenderanno a mano a mano vita: settantacinque “siparietti” da altrettanti “articoli” che paiono abbracciare, fantasiosamente e imprevedibilmente, più di trent’anni di storia francese, dal regime di Vichy ai movimenti studenteschi nella primavera del ’68.
Incontrerete il sonnacchioso caporedattore (Bill Murray) nel cui ufficio è rigorosamente vietato piangere; un’organizzatrice di mostre (Tilda Swinton) gelida e un po’ ninfomane e un sussiegoso mecenate (Adrien Brody) illusi di aver scorto il genio in un ergastolano (Benicio Del Toro), ringhiante come un mastino, mentre era solo un “imbratta-tele” invaghito di una burrosa secondina (Léa Seydoux), modella di nudo all’occasione; una fotocronista canadese di mezza età (Frances McDormand) e una giovane algerina gauchiste (Lyna Khoudri) che si contendono il bel Zeffirelli (Timothée Chalamet), damerino e scrittore “con il cuore al popolo e le terga al caldo”, sfidato, intanto, dal prefetto a una folle partita a scacchi a distanza, usando come posta in gioco la soppressione dell’ennesima, violenta carica della gendarmeria; un mnemonista (Jeffrey Wright) finito suo malgrado in una buriana di ispettori tutti un tic, sindacalisti corrotti, inseguimenti sulle mitiche ‘Traction Avant’, sparatorie, una bionda, “sternberghiana” entraineuse (Saoirse Ronan) che canta la ninna-nanna a un quattrocchi bimbo-prodigio e un mansueto chef coreano (Steve Park) fatto secco da uno stuzzichino avvelenato… e tutto questo per una – sic – recensione gastronomica (nessuno faccia domande, per favore)! Se ci fossero le faine del giudice Morton e Droopy vestito da facchino il quadro sarebbe completo…
The French Dispatch è un buon esempio di quello che Emanuela Martini definì “cinema-cinema”: poco meno di due ore alle quali ci si abbandona per il puro piacere di scrutare lo schermo e, a prescindere da ogni plausibile sottotesto, “giocare”. Giocare un sacco. Certo, basterebbe applicare un taglietto sulla fragile, traslucida pelle del film perché fuoriesca lo stesso “fiotto” del precedente Grand Budapest Hotel ossia “il rimpianto dell’elegante banalità quotidiana che […] si chiamò Belle Époque” (U. Duse), sebbene in questo caso ci troviamo nel Novecento abbondantemente inoltrato. Ma è una lettura che brucerebbe inutilmente la visione.
Viceversa, la frenetica varietà e alternanza di formati (dallo schermo “quadrato” al 16:9), tinture (b/n e colore), generi (mélo, comicità “alla Tati”, strisce animate) e linguaggi (muto e sonoro) nella narrazione – decisivi, a riguardo, gli apporti di Adam Stockhausen (Ready Player One) alle scene, della pluripremiata Milena Canonero (Barry Lyndon) ai costumi e del fido Robert Yeoman alle immagini – omaggia sì quei buffi “trisavoli” della Decima Musa che furono gli “scrap books” e gli schermi pieghevoli (coperti spesso con pezzetti di stampe) usati in età vittoriana per dividere gli spazi domestici ma soprattutto fa di The French Dispatch, dopo Krokodyle di Bessoni, T.S. Spivet di Jeunet e La stanza delle meraviglie di Haynes, l’ulteriore e più importante prova del sotterraneo dialogo fra un certo cinema del nuovo millennio e l’estetica delle Wunderkammern ovvero i rinascimentali “gabinetti delle curiosità” con la loro ridda di balocchi, scatoline, decalcomanie, vecchie carte e ancora, citando il Tricheco di Lewis Carroll, «ceralacca, bastimenti, scarpe, cavoli e potenti».
Chissà, forse aveva ragione Massimo Bertarelli, Dio l’abbia in gloria, a dire che Wes Anderson racconta, in fondo, sempre la stessa storia, con umorismo raffinatissimo e ottimi attori vestiti da deficienti; forse lo spasso del suo cinema ha un che di snob, molta “testa” e meno “cuore” di quanto si pensi; forse critici e pubblico, ormai ben entrati nella logica burlona dell’autore, sono definitivamente alleati nel non riuscire più a distinguere la finezza dal camp… o forse ci troviamo di fronte al capolavoro del regista, il primo autentico gioiello in 25 anni, finora, di carriera. Vedere per credere.
Per un approfondimento, consigliamo al lettore il libricino di Erkki Huhtamo Elementi di schermologia (Youcanprint; 2014) e di riscoprire il cineasta che, sotto molti aspetti, Anderson può ricordare: il ceco Karel Zeman (1910-1989).