The Cloverfield Paradox, terzo capitolo della (almeno per il momento) tetralogia di monster movies prodotta da J. J. Abrams, è stato diffuso a sorpresa sulla piattaforma di streaming Netflix lo scorso 4 febbraio. Il lungometraggio di Julius Onah approfondisce gli eventi già raccontati nell’originale Cloverfield di Matt Reeves e nel secondo 10 Cloverfield Lane di Dan Trachtenberg, svolgendosi dunque prima, dopo e durante i fatti conosciuti.
La terra è in pericolo: una grave crisi energetica minaccia le fondamenta del vivere comune. Per tentare di risolvere il problema, una flotta spaziale viene incaricata di rinchiudersi nella Cloverfield Station, una centrale spaziale dove è presente un acceleratore di particelle che dovrebbe creare una fonte illimitata di energia.
Ignari dei rischi, gli astronauti riescono dopo vari tentativi ad attivare il fondamentale macchinario. I risultati non sono tuttavia quelli sperati: attraverso un portale multidimensionale, la stazione viene infatti catapultata in un altro universo. Tra apparizioni improvvise e morti cruente, l’equipaggio si troverà costretto a lottare per la propria sopravvivenza.
Arrivata al suo terzo capitolo, la saga di Cloverfield continua a stupire per la sua capacità di mutare e rinnovare la propria essenza. Dopo un primo film found footage e un secondo dai caratteri più vicini al horror psicologico, The Cloverfield Paradox (qui il breve spot pubblicitario) si delinea come un lungometraggio di fantascienza che, pur schiacciando l’occhio all’universo cinematografico di appartenenza, riesce anche a discostarsene.
The Cloverfield Paradox recensione del terzo capitolo della saga
Vincente è quindi, almeno sulla carta, l’idea di differenziare le tre pellicole che, ad esclusione di un breve cameo di una figura secondaria, non hanno personaggi o story-line realmente in comune. Allo stesso tempo, le narrazioni antitetiche riescono comunque a convergere grazie ad un unico elemento cardine: i mostri, che, proprio grazie a quest’ultimo film, trovano anche un’origine.
Nonostante l’ottima idea di partenza, meno riuscita è invece l’effettiva messa in narrazione, che spesso non riesce a creare una vera tensione, come invece succedeva nel riuscitissimo secondo episodio. Ugualmente il finale, che dovrebbe rappresentare l’apice emotivo di tutta la storia, è raccontato con eccessiva e immotivata rapidità, non permettendo allo spettatore una vera immedesimazione.
A parte qualche snodo più interessante, molti elementi peccano inoltre di superficialità, a partire dagli stessi personaggi. Sebbene le interpretazioni della protagonista Gugu Mbatha-Raw e soprattutto di Elizabeth Debicki siano indubbiamente riuscitissime, le figure che incarnano appaiono spesso bidimensionali e poco sviluppate. Ciò succede anche per tutti gli altri ruoli, primo fra tutti Schmidt (Daniel Brühl).
Un discorso analogo può essere infine fatto per il regista Julius Onah che, al contrario dei suoi predecessori, non riesce ad imporre nemmeno una minima firma autoriale, piegandosi pedissequamente all’anonimato che spesso accumuna le medie produzioni statunitensi.