L’horror è una cosa seria. Una questione legata ad uno specifico punto di vista sul mondo, ad un’ottica diversa, sfrontata, l’unica forse libera dalla stretta morsa dei canoni tipici di ogni genere perché incline alla sperimentazione, alla libertà di raccontare i tabù senza giudizio né vergogna. Attraverso i film dell’orrore cineasti e sceneggiatori hanno cercato di analizzare l’insondabile, di dare corpo alle paure e alle ombre che si muovono nella zona grigia del reale, nascoste negli angoli del quotidiano e nei punti ciechi inconfessabili che albergano nell’oscurità umana.
Per questo è importante analizzare la genesi dei fenomeni e i topoi ricorrenti per capirne i meccanismi (narrativi, sociologici ed estetici), così come ha fatto Eli Roth attraverso il programma History of horror. Forse quest’opera omnia in tre stagioni è la punta di diamante della produzione del regista americano, scoperto da Quentin Tarantino e lanciato nell’empireo hollywoodiano grazie a Cabin Fever e, successivamente, al cult Hostel. Così uno dei registi simbolo del sottogenere definito, nei primi anni 2000, come torture porn ha però deciso di investire il proprio talento e le energie in un progetto divulgativo, che cerca di spiegare l’orrore dimostrando il suo ruolo di lente deformante puntata sulla realtà fenomenica; e oggi fa piacere rivederlo dietro la macchina da presa in una nuova impresa di genere, lontano dalle atmosfere gotiche – ma rassicuranti – del film Disney Il mistero della casa del tempo e del prossimo impegno con l’adattamento del videogioco Borderlands.
Giocare con i generi, confondendone i confini
Questa volta la sua conoscenza del genere e l’estro creativo sono al servizio di Thanksgiving, operazione nata da una costola del Grindhouse firmato dalla coppia Tarantino-Rodriguez e, finalmente, pronta ad approdare sullo schermo d’argento a partire dal prossimo 16 novembre. In un primo momento, Thanksgiving era solo uno degli geniali fake trailers contenuti all’interno del dittico pulp, omaggio alla pura exploitation di serie B: Edgar Wright, Rob Zombie e infine Eli Roth erano stati chiamati a giocare con i generi, confondendone i confini e spiazzando la percezione dello spettatore, “confortandolo” con un’insolita risata liberatoria. Con il passare del tempo – e la trasformazione in cult – finalmente il trailer è cresciuto diventando adulto, con una durata di 146 minuti e un cast che vede protagonisti Patrick Dempsey al fianco di Addison Rae, Milo Manheim, Jalen Thomas Brooks, Nell Verlaque, Rick Hoffman e Gina Gershon.
Siamo a Plymouth, nel Massachusetts. La tranquilla cittadina è sconvolta da una terribile tragedia avvenuta all’interno di un centro commerciale durante il Black Friday; un anno dopo, durante i festeggiamenti del Thanksgiving, un misterioso e feroce serial killer comincia a torturare e uccidere la popolazione locale, seguendo un grottesco piano di vendetta e prendendosela soprattutto con un gruppo di ragazzi, che evidentemente nascondono a loro volta uno scomodo segreto. Per loro, sopravvivere diventa l’obiettivo principale; per il killer, punire tutti i colpevoli sembra essere l’unico scopo.
Non si può ridurre Thanksgiving ad un semplice slasher: sì, l’universo di riferimento è quello, affonda le radici negli horror caustici e “di plastica” degli anni ‘80 nei quali i corpi diventano l’oggetto del desiderio della macchina da presa, ma il film di Roth è molto di più. Siamo di fronte ad un ritorno consapevole, che amplifica il potenziale già dimostrato dal regista attraverso Cabin Fever, Hostel (soprattutto il primo) e Green Inferno.
Già lì c’era, in nuce ma con una certa evidenza, la volontà di analizzare in modo critico – e attraverso il genere – la realtà che ci circonda, senza escludere una vena di oscura ironia che attraversa le succitate opere. Qui il regista sembra più consapevole della macchina cinema e del proprio obiettivo narrativo, sa cosa vuole raccontare e come farlo; per raggiungere tali scopi, opta per il piacere della citazione derivativa, dell’omaggio sentito ai film e ai registi che più ama per tratteggiare un cinico compendio di sociologia in salsa pop, sfruttando l’horror per mostrare il vero volto della paura: l’essere umano stesso, attraverso indefinite sfumature.
Exploitation splatter libera e sfrontata
Dal punto di vista della regia e dello storytelling, i primi minuti che anticipano i titoli di testa sono da manuale di storia del cinema: Roth trasla la lezione del Romero di Zombi (Dawn of the dead, 1978) al giorno d’oggi, ai tempi pazzi del consumismo sconsiderato che acceca, trasformando le persone in zombie senza volontà. Lo spettatore si ritrova così, in quei pochi minuti, a ridere del paradosso, rendendosi pian piano conto di quanto drammatico ed inquietante sia: quelli non sono zombie affamati di carne umana, creature dell’oltretomba, ma esseri umani accecati dal dio denaro e dalla conquista del vitello d’oro del Black Friday, incarnato da una piastra per i waffle. Romero 3.0 quindi, con l’aggiornamento della critica spietata al capitalismo che passa per l’exploitation splatter libera e sfrontata, in un tripudio di violenza grafica che genera una catarsi liberando il pubblico da tabù e frustrazioni, permettendogli di ridere (inconsciamente) di se stesso, abbandonandosi ad un’irrefrenabile risata.
Certo, il film mantiene le aspettative dei fan seguendo il pattern già tracciato dal trailer e collaudando la formula dello slasher in una struttura talmente “classica” da risultare quasi confortante, come se davanti allo schermo scorressero le immagini di un film già visto innumerevoli volte… elemento che non lo rende certo meno accattivante. Con Thanksgiving, Eli Roth torna al genere che lo ha consacrato, l’horror, con una consapevolezza e una maturità più profondi e sfaccettati, divertendosi e divertendo – di conseguenza – un pubblico che intrattiene grazie a battute al vetriolo e schizzi grafici di violenza stilizzata e fumettistica, mostrando la realtà di un’America contraddittoria, vittima dei suoi stessi dogmi e di quei luoghi comuni che l’hanno resa grande… di nuovo, sì, ma come un fragile golem dai piedi d’argilla ormai pronto a crollare su se stesso.