“Man manu ca passunu i jonna/ Sta frevi mi trasi ‘nda lI’ossa/ ‘Ccu tuttu ca fora c’è ‘a guerra/ Mi sentu stranizza d’amuri” cantava Franco Battiato: era il 1979 de L’era del cinghiale bianco quando usciva questo brano, “Stranizza d’amuri”, che ben catturava – come in una perfetta istantanea – quella travagliata gamma di sentimenti che scuotono l’animo umano quando si scopre, all’improvviso e in modo imprevedibile, innamorato e magari deve confrontarsi con uno sfondo terribile, dilaniato da conflitti (come la guerra, nel brano del maestro siciliano) o da pericolosi pregiudizi, esattamente gli stessi mostrati da Giuseppe Fiorello all’interno del suo film d’esordio, Stranizza d’amuri.
Debutto dietro la macchina da presa per un attore che è stato, nel corso degli ultimi vent’anni (e più), l’uomo di punta della rete ammiraglia Rai, il simbolo dei palinsesti della tv di stato dominata da fiction e film per riempire la prima serata; ma Fiorello, dopo anni di lavoro, ha sviluppato una maturità e una sensibilità tali da affrontare non solo il semplice passato prossimo (della cronaca nera italiana), ma anche i propri ricordi confusi da adolescente e le proprie radici per onorare una verità per troppo tempo insabbiata e, infine, (quasi) dimenticata. In uscita nelle sale italiane il prossimo 23 marzo, Stranizza d’Amuri racconta attraverso una cronaca romanzata e filtrata dalla creatività dello stesso regista (e co-autore, insieme agli sceneggiatori Andrea Cedrola e Carlo Salsa), i tragici antefatti che portarono al delitto di Giarre, avvenuto nella Sicilia del 1980, quando due giovanissimi – Giorgio e Antonio – vennero uccisi da ignoti solo per via del loro amore.
Due corpi feriti a morte da due colpi di pistola; sempre due le pistole fumanti ritrovate e un biglietto: bastarono questi elementi per bollare il caso come “omicidio/suicidio”, insabbiando le indagini e finendo per trasformarlo in un cold case del quale ancora non si conosce la verità. E Giuseppe Fiorello, spinto da un articolo di cronaca letto ben dodici anni fa – in occasione del trentennale del delitto – ha deciso di compiere un’ulteriore evoluzione nella propria carriera, un cambiamento radicale che lo ha portato ad osservare questi eventi con la “giusta distanza” (e l’occhio distaccato) del regista, ma con il cuore coinvolto da vicino esattamente come un attore alle prese con la costruzione del proprio personaggio. In un cinema votato al genere, per raccontare il caso di Giorgio e Antonio, Giuseppe Fiorello sceglie invece di allontanarsi dalle seduzioni facili del crime, del genere investigativo e “giallo” (tanto di moda in Italia) virando verso una narrazione intimista e drammatica, ma lasciando tutto lo spazio necessario alle immagini per raccontare la realtà… o, almeno, una sua versione filtrata attraverso la creatività dell’artista.
Nel giugno 1982, in una calda Sicilia che freme per la Nazionale Italiana ai Mondiali di calcio, due adolescenti – Gianni e Nino – si scontrano con i rispettivi motorini lungo una strada di campagna. Dallo scontro nasce una profonda amicizia, ma anche qualcosa di più, qualcosa che non viene visto di buon occhio dalle famiglie e dai ragazzi del paese. Coraggiosi e affamati di vita, Gianni e Nino non si curano dei pregiudizi, delle dicerie e vivono liberamente; una libertà che gli altri non comprendono e non sono disposti ad accettare, per nessuna ragione.
La delicatezza dell’omaggio sulle ali del ricordo
Scegliendo con coscienza di allontanarsi dalla mera cronaca nera, dall’indulgente racconto di un dolore perduto e spettacolarizzato, Giuseppe Fiorello orchestra gli attori Gabriele Pizzuro, Samuel Segreto, Simona Malato, Enrico Roccaforte, Fabrizia Sacchi, Antonio De Matteo (di recente in Piano Piano di Nicola Prosatore e nella serie Mare Fuori) e Manuel Bono per narrare le premesse, scavando nella fragile analisi psicologica e socio-antropologica per individuare le cause del “male” e del malessere, scovando tra le quattro mura accoglienti della famiglia i primi germi di questa febbrile malattia pronta a sfociare in rabbia, odio, bullismo verso il prossimo, fino a degenerare nella violenza nei confronti di chi non rispetta lo status quo (almeno, agli occhi della gente), trasformandosi in un errore del sistema da estirpare.
Pur nascendo come una sorta di istantanea cristallizzata nello spazio e nel tempo, Stranizza d’Amuri finisce per configurarsi come una capsula del tempo che rimanda indietro la memoria collettiva degli italiani fino a quegli anni, caratterizzati anche da un entusiasmo dominante capace di deformare la realtà con il proprio superficiale ottimismo. Dal punto di vista della regia, Giuseppe Fiorello sceglie una grammatica delle inquadrature popolata da riprese strette, dettagli, particolari e primissimi piani che permettono allo spettatore di muoversi a fianco ai personaggi, di scrutarli silenziosamente mentre vivono la propria esistenza sullo schermo: sembra quasi di percepire il volume dei corpi, gli odori, i rumori più infinitesimali che contribuiscono a costruire un enorme affresco corale, un ricchissimo arazzo che mette in scena un vasto campionario di pittoresca umanità palesemente emerso dai ricordi del regista, che non sceglie di alterare la realtà stessa quanto di omaggiarla, attraverso gli occhi dei propri ricordi.
E in quest’atmosfera sospesa si muovono Gianni e Nino, esempi perfetti di scelte casting azzeccate che hanno donato una tridimensionalità speciale a personaggi che, altrimenti, avrebbero rischiato la caduta nel pozzo senza fondo dei cliché e dei luoghi comuni da grande schermo. Al contrario, pur sacrificando a tratti il ritmo e un lavoro di montaggio più serrato, Stranizza d’amuri sceglie scientemente cosa raccontare e quali conseguenze potrà sortire sullo spettatore: ecco quindi che l’occhio meccanico della MdP si focalizza sui respiri, gli sguardi, le intenzioni e i gesti che tradiscono i pensieri dei vari protagonisti, lasciando che lo spettatore si avvicini sempre di più assistendo, impotente, allo scoppio del dramma, al progressivo disgregarsi di legami sociali basati sulla ragion pratica e l’etica invocate da Kant. Nel film il male inizia a serpeggiare tra le mura domestiche, nei genitori più interessati alla difesa dell’onore che alla felicità dei propri figli, svelando il lato più meschino degli adulti incapaci di sognare e di continuare ad essere puri e felici: come accadeva nella serie Netflix – tratta dal romanzo omonimo di Elena Ferrante – La vita bugiarda degli adulti, anche qui sono i giovani a guardare, a scrutare in silenzio, decidendo prima di tutto cosa (e chi) non diventare in futuro: il resto, è sospeso tra una malinconica – e amarissima – analisi di un amore puro e la rigidità di certe regole sociali legate a norme secolari, presenti nel microcosmo della Sicilia evocata da Fiorello ma anche nel resto del mondo adulto che ha ceduto alle amarezze quotidiane.
Stranizza d’amuri tratta un fatto di cronaca attraverso la delicatezza dell’omaggio sulle ali del ricordo: non c’è traccia di morbosità, spettacolarizzazione del dolore, indagini oscure. A trionfare è solo la luminosità di un’adolescenza spensierata spenta troppo presto, calpestata come un fiore raro che spaventa e inquieta la massa, come spesso fa la spregiudicata libertà. E quel mix di emozioni contrastanti, di sublime meraviglia e cupa bassezza che si rincorrono in un forsennato valzer, passando attraverso gli sguardi e i gesti dei (perfetti) interpreti che si muovono sullo sfondo della Storia collettiva mentre, nel cielo, esplodono fuochi d’artificio che somigliano tanto agli echi distorti di una guerriglia urbana, proprio come nella complessa “Stranizza d’amuri” cantata da Battiato.
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