I biopic musicali sono diventati a tutti gli effetti una tendenza nell’odierno panorama cinematografico hollywoodiano. Basti pensare al successo di pellicole come Bohemian Rhapsody e Rocketman, che hanno inevitabilmente dato vita – con buona pace dei detrattori – a tutta una serie di progetti in arrivo dedicati ad alcune delle più influenti personalità del mondo della musica (Michael Jackson, Whitney Houston e Madonna, solo per citarne alcuni). Naturalmente, quando si prendono in mano le redini di un bopic (di un biopic qualsiasi, non strettamente musicale) c’è sempre il rischio di incorrere nella sterile (ed inutile, ammettiamolo!) cronistoria, perdendo l’occasione di offrire al pubblico uno sguardo privilegiato su uno o più aspetti della vita o della carriera di quel determinato artista.
In un certo senso Stardust, biopic del britannico Gabriel Range dedicato alla leggenda David Bowie, decide di operare in controtendenza e di focalizzarsi in maniera consapevole su un periodo assai delicato e sicuramente fondamentale della carriera di uno dei personaggi più poliedrici, importanti e influenti della scena pop e rock mondiale, provando ad offrire quel tanto agognato “sguardo privilegiato”. Siamo nel 1971 e Bowie (interpretato da Johnny Flynn) ha solo 24 anni quando decide di partire alla conquista dell’America per promuovere il suo ultimo disco, The Man Who Sold the World. Durante il viaggio, David comincerà lentamente a rendersi conto di un bisogno sempre più incessante, che purtroppo (o per fortuna) non potrà più essere ignorato: reinventarsi per riuscire a diventare veramente se stesso. Da questa consapevolezza nascerà il suo iconico e celestiale alter ego Ziggy Stardust.
Gabriel Range prova ad analizzare chi si nascondeva realmente dietro le molteplici facce di una delle più grandi icone della storia della musica, puntando l’attenzione su uno dei capisaldi concettuali che hanno contribuito alla costruzione del mito di Bowie e del suo inestimabile fascino: quello dell’identità. Il Bowie di Range è un uomo poliedrico in perenne conflitto con se stesso e con l’incapacità di definirsi, ma che alla fine riesce a superare i suoi tormenti interiori inventando un’immagine attraverso cui poter esprimere finalmente la sua vena artistica e liberarsi dai suoi demoni. Bowie viene catturato da Range nel momento forse più intimo della sua carriera, quello in cui si trova ad affrontare una vera e propria svolta, che non lo condurrà soltanto alla creazione del primo e forse più memorabile dei suoi alter ego, ma anche alla consapevolezza di voler abbracciare, nel tempo, una maturazione tanto professionale quanto stilistica sempre differente, facendo del concetto di reinvenzione una vera e propria missione di vita, oltre che una necessità.
Il punto di vista che Range sceglie di adottare è sicuramente interessante: scardinando i codici preesistenti del film biografico che passa in rassegna gli alti e i bassi dell’intera carriera di un’artista, il regista britannico (almeno per gran parte della durata del film) utilizza alcuni tratti affini al genere del road movie per condurre lo spettatore in un vero e proprio viaggio nella mente di Bowie, cercando di (far) comprendere cosa potrebbe aver spinto l’uomo a diventare l’artista. Il ritratto che ne esce fuori durante i 104 minuti di durata è quello di un giovane ambizioso ma al tempo stesso insicuro, che doveva ancora dimostrare al mondo di cosa fosse realmente capace attraverso la sua arte; parallelamente, quel giovane – schiacciato dalla figura ingombrante di un fratello che è stato insieme padre e mentore, e intimorito dal pensiero di finire preda della follia come lui – doveva anche combattere contro una serie di fantasmi personali.
Molto poco è stato scritto su quel primo viaggio fatto in America da Bowie ed è palese quanto il resoconto di Range sia stato fortemente romanzato (d’altronde, viene anche palesemente dichiarato all’inizio del film!). Pur essendo un’opera di finzione, Gabriel Range cerca di infondere al suo lavoro quanto più realismo possibile, ma finisce per incanalare Stardust verso i sentieri del classico biopic a cui siamo già stati abituati in passato, senza mai riuscire a rendere davvero giustizia all’anima provocatoria e anticonformista che un personaggio come David Bowie ha rappresentato e continuerà sempre a rappresentare. Nonostante qualche guizzo registico, Range compie un’operazione piuttosto svogliata, limitandosi a confezionare un film piatto e fortemente didascalico: invece di dimostrare di essere realmente interessato a carpire l’essenza del genio Bowie e a scavare in profondità, pare che il regista preferisca adagiarsi sugli allori, rimanendo in superficie e imputando la “creazione” di un mito esclusivamente ad un passato tormentato.