Una bambina si smarrisce nel bosco, dove viene adescata da un lupo pronto a circuirla e a mangiarla, ma per poterlo fare in tutta tranquillità si fa rivelare dalla bambina dove abita la nonna. Quando la bambina con mantellina rossa arriva, al posto dell’amabile vecchietta trova il lupo travestito, che se la mangia in un sol boccone.
Sembra quasi che M. Night Shyamalan, nel realizzare il suo ultimo film, si sia liberamente lasciato suggestionare da questa antica fiaba europea, realizzandone attraverso il suo Split una versione contemporanea dark, oscura, disturbante ed inquietante che scava senza reticenze nelle profondità frastagliate ed oscure del desiderio umano, mettendo lo spettatore di fronte ad una considerazione cruciale: di cosa è davvero capace il nostro cervello? Ma soprattutto, di cosa è capace l’uomo, quando viene messo di fronte a drammatiche evidenze o a necessarie risoluzioni?
La vicenda narrata in Split si muove a partire da una situazione di assoluta tranquillità: un’adolescente, Claire, festeggia il proprio compleanno insieme alle compagne di classe; tra queste c’è anche Casey, silenziosa ed irrequieta, che accetta di riaccompagnare a casa insieme a suo padre e all’amica di sempre, Marcia. Ma quando le tre ragazzine sono in auto, qualcuno le rapisce: il misterioso uomo si chiama Kevin e soffre di un disturbo psichiatrico che lo costringe a far coesistere ben 23 personalità diverse in un unico corpo, alcune delle quali si dimostrano decisamente pericolose e pronte a tutto per prendere il controllo definitivo.
Shyamalan cancella finalmente gli alti e bassi della propria carriera senza però allontanarsi dallo stile che ne ha sancito la fortuna, il thriller con venature soprannaturali; sempre più erede del “modello” Hitchcock, come il grande cineasta inglese condivide il piacere per il gioco di specchi, per le citazioni e i rimandi all’interno della propria opera, le apparizioni fugaci e gli esperimenti meta-riflessivi che contribuiscono – in questo caso specifico – ad una sopraggiunta maturità stilistica, capace di padroneggiare l’aspetto visivo quanto quello testuale del prodotto audiovisivo finale.
Shyamalan conosce la suspense, la sa maneggiare (con cura) ed è in grado di disturbare fino al punto di rottura lo spettatore, che impotente non può fare a meno di osservare, scrutare nell’ombra oscura di un posto privilegiato la degenerazione grottesca e “nera” del racconto di una fiaba moderna, dove la “bambina” è ormai un’adolescente senza cappuccetto rosso (Casey, interpretata da Anya Taylor–Joy) che si ritrova, costretta dal destino, ad affrontare quelle paure ancestrali comuni ad ognuno di noi ma che si legano, drammaticamente, al passato dolente della ragazza.
Una moderna eroina che compie il proprio viaggio di consapevolezza cercando di evitare le insidie di un “lupo” inquietante, inafferrabile proprio perché colto nella complessità della propria natura/anima frammentata capace di essere fragile e pericolosa, affidabile e mistica, ambigua e mortale nello stesso istante (e nei cui panni troviamo un James McAvoy in stato di grazia, forse alle prese con il “ruolo della vita”).
Split è un film affine al suo protagonista, Kevin: un’opera capace di spiazzare e spaventare fino al sorprendente epilogo, alimentando nel corso dei 116 minuti il dubbio che aveva sollevato, fin dall’inizio, nello spettatore, che sarà costretto ad interrogarsi sulle capacità del cervello – ma, soprattutto, della volontà – dell’uomo proprio quando gli occhi di Casey si specchieranno, fissi, in quelli di un leone dal cuore umano di tenebra.