C’è un concetto che sta attraversando, in modo inequivocabile, la nostra epoca: è quello di Multiverso, inteso come una rete spazio-temporale stratificata e sfaccettata in grado di connettere, tra loro, differenti versioni – o variazioni – dello stesso Io. Definizione libera e, forse, fin troppo freudiana di un elemento cardine dell’odierna pop culture, che ha sancito il successo dei prodotti fuoriusciti dalla “Casa delle Idee” – i Marvel Studios – e di alcuni felici esperimenti dell’industria più “indie”, come ha confermato la vittoria schiacciante durante l’ultima notte degli Oscar del film Everything Everywhere All at Once, definito non a caso come il “manifesto definitivo del Multiverso”.
È stata proprio la Marvel a definire il potenziale di questo concetto sperimentando le sue infinite possibilità, come ha dimostrato trasversalmente sia con prodotti destinati alle sale – l’ultimo Ant-Man and the Wasp: Quantumania, ad esempio, ma anche Doctor Strange nel Multiverso della Follia – che allo schermo ridotto delle piattaforme – la serie Loki con protagonista Tom Hiddleston. Eppure c’è un supereroe in particolare, da poco tornato sotto l’egida del MCU, che meglio di altri ha cavalcato l’onda grossa e imponente di un successo assicurato: stiamo parlando dell’adorabile “supereroe di quartiere” Peter Parker, ovvero di Spider-Man, che proprio nell’ultimo Spider-Man: No Way Home ha riunito, sul grande schermo, le tre versioni più celebri del famoso supereroe – incarnate da Tom Holland, Andrew Garfield e Tobery Maguire – e altrettante storiche nemesi, tornate solo per la grande occasione. E adesso che la Sony e la Marvel hanno trovato un accordo per riassorbire il personaggio dell’Uomo Ragno in un tessuto ben più stratificato e complesso, è inevitabile che i confini drammaturgici ed estetici del Multiverso siano pronti ad espandersi e a sperimentare direzioni nuove e completamente inedite.
Lo dimostra Spider-Man: Across the Spider-Verse, sequel del film d’animazione del 2018 Spider-Man: Un nuovo universo, che con coraggio e sfrontatezza affronta i concetti limacciosi di spazio, tempo, varianti, canoni e dimensioni (varie ed eventuali) alzando la posta in gioco già fissata dal primo, che si era infatti guadagnato un meritatissimo premio Oscar per l’animazione. Miles Morales, protagonista del precedente capitolo, è pronto a tornare anche in questo: dopo essersi riunito con Gwen Stacy, l’amichevole Spider-Man di quartiere (di Brooklyn) viene catapultato di colpo nel Multiverso, dove incontra una squadra di “Spider-Eroi” incaricata di proteggerne l’esistenza. Ma quando gli eroi si scontrano su come affrontare una nuova minaccia, Miles si ritrova contro gli altri “Ragni” e dovrà ridefinire cosa significa essere un eroe per poter salvare le persone che ama di più.
C’è una domanda in particolare che aleggia sulle nuove avventure di Miles Morales, e che riguarda l’arduo – e oneroso – compito dell’eroe: per adempiere al proprio destino, è necessario accettarlo passivamente oppure diventare agenti attivi e fautori della propria storia, artefici unici legittimati ad agire secondo la propria volontà, consci del concetto stesso di libero arbitrio? Premesse non facili, alle quali sembra difficile trovare un’unica risposta plausibile: e il nuovo film d’animazione diretto da Joaquim Dos Santos, Kemp Powers e Justin K. Thompson (ricordiamo, nelle sale dal 1 giugno) cerca di bilanciare con un impianto filmico ambizioso la necessità di “riempire” di contenuti impegnativi e più profondi un contenitore spettacolare e mainstream, sintesi perfetta tra passato (prossimo) e presente dell’animazione, pronto però a traghettare gli spettatori nel futuro del genere.
Vista la complessità magmatica della materia trattata, è necessario analizzare il film nella sua affascinante totalità: le premesse presenti nel primo capitolo vengono mantenute, soddisfatte e rilanciate sul tavolo verde con una scommessa molto più ambiziosa: il cuore di questo Across the Spider-Verse è ancora più oscuro e maturo, pronto a frammentare i propri temi e i messaggi in una, nessuna e centomila variazioni di Spider-Man, infiniti riflessi in una stanza degli specchi dedalica e stratificata, incarnazione di un Multiverso che abbatte i concetti convenzionali di spazio e tempo proiettandoli in innumerevoli dimensioni, tutte attraversate da un fil rouge comune; perché non importa dove o quando, ma i canoni inevitabili (e ineluttabili) della storia dell’Uomo Ragno si paleseranno costantemente, fino a trasformarsi in nodi focali dolorosi ma dai quali sembra impossibile fuggire.
Il comparto estetico sostiene ambizioni e profondità
Il concetto introdotto è quello di inevitabilità, proiettando così le disamine più “marvelliane” su un piano etico superiore, a tratti trascendentale. E lo stesso accade per la personificazione della nemesi di Miles Morales, un villain ribattezzato La Macchia che, non a caso, non ha un volto specifico, ma solo un corpo bianco sul quale proiettare – esattamente come una tela – le indecifrabili paure che attanagliano nel profondo ogni “supereroe di quartiere”: la perdita, il lutto, la morte, l’accettazione, le responsabilità, il fallimento. Punti fissi di un elenco comune per ogni versione di Spider-Man nonostante le evidenti differenze; questo perché in Across the Spider-Verse vengono presentate nuove versioni, pronte a creare conflitti tra loro stesse come alle prese con i frammenti splittati di una stessa personalità complessa.
E anche l’animazione sembra riflettere questa necessità di approfondire psicologie, personaggi e argomenti, mostrando un tratto più “espressionista” e meno convenzionale, specchio sintomatico dell’inafferrabilità interiore legata al ciclo delle emozioni, rendendo più spigoloso il tratto e maggiormente scarni (o schizzati) i fondali, fino a sperimentare una tecnica mista, sporadiche incursioni live action, stili e tratti diversi in una ricerca estetica ambiziosa e magniloquente, asservita al ritmo forsennato dell’azione continua e fantasmagorica che riesce, infine, a sopraffare lo spettatore solleticando le corde effimere del piacere retinico, “vittima” ideale di un’overdose di inarrestabili immagini iperboliche.
Se fosse solo per questi elementi evidenziati finora, Spider-Man: Across the Spider-Verse potrebbe benissimo rappresentare l’essenza del sequel ideale, ambizioso e ben saldo ma… anche in una macchina apparentemente perfetta qualche ingranaggio rischia di incepparsi in modo brusco e inaspettato, proprio come succede durante la visione del film sul grande schermo. La via dell’eccesso non sempre conduce al palazzo della saggezza – parafrasando – e infatti basta davvero poco per trasformare l’azione incalzante in un’onda anomala e gigantesca, uno tsunami di elementi e stimoli che inondando la percezione dello spettatore chiedendole di compiere gli straordinari, di seguire con la massima attenzione i rimandi e i fili che collegano passato e presente di una specifica narrazione, senza avere la possibilità di presentarsi in sala da neofiti oppure di distrarsi, accidentalmente, nel corso della visione.
Il comparto estetico e quello tecnico sostengono ambizioni e profondità, sistemandosi però entrambi in bilico sui due piatti di una fragile bilancia: forse è proprio la presenza ingombrante della realtà, incarnata da algoritmi destinati a replicare formule di successo all’infinito, un’inclusività forzata (e ad ogni costo, a prescindere dalle scelte narrative compiute) e un bisogno di trasformare ogni prodotto mainstream in un progetto seriale (come ha dimostrato anche l’ultimo capitolo della saga di Fast & Furious, Fast X), ad appesantire il meccanismo, altrimenti perfetto, alla base di un intrattenimento pop(ular) destinato a compiere, indisturbato, la propria missione: garantire al pubblico un’innocente evasione che lo allontani dal logorio della quotidianità, immerso nel respiro della sala buia.