Nella tradizione del genere sci-fi, c’è una sostanziosa corrente intimista, che si occupa di analizzare la natura umana servendosi dei mezzi di questo tipo di cinema, tra i quali il viaggio, la scoperta, il mistero e l’isolamento. Ecco, l’isolamento è uno dei tropi fondamentali quando si pensa alla fantascienza perché permette di guadagnare una prospettiva da cui potersi muovere sia quando si costruisce la storia e sia quando si costruisce la tematica. Si può utilizzare come caratteristica essenziale nel tono di una narrazione (“nello spazio nessuno può sentirti urlare”) o come una scelta politica, magari legata ad un allontanamento volontario. L’isolamento è una posizione da dove guardare, ma anche un centro di significati da sviscerare.
Da questo concetto parte Spaceman, il nuovo film sci-fi originale Netflix, disponibile in piattaforma dall’1 marzo e presentato alla Berlinale 74, e forse anche dal romanzo del 2017 “Spaceman of Bohemia” scritto da Jaroslav Kalfar da cui è tratto. Oltre questo, la pellicola è anche l’undicesima collaborazione tra la piattaforma del Tu Dum e Adam Sandler, affiancato da Carey Mulligan, Isabella Rossellini (!), Kunal Nayyar, Lena Olin e Paul Dano in un ruolo importante, ma piuttosto inaspettato, nonché la seconda diretta da Johan Renck, noto in ambito musicale con lo pseudonimo di “Stakka Bo”.
Un professionista con un curriculum di tutto rispetto e che ha trovato il suo apice nella regia dei due ultimi videoclip di David Bowie e degli episodi di Chernobyl (alla regia di un lungometraggio aveva però debuttato nel lontano 2008, con il misconosciuto Downloading Nancy). Un uomo di musica che dall’assenza della musica inizia il suo discorso filmico, cercando una matrice incentrata sull’attesa, che mette e toglie elementi audiovisivi per creare immaginario e ritmo, guardando sempre al tropo di cui sopra.
“Everybody Look Down! It’s All in Your Mind”
Rimanendo su questo parallelismo tra cinema e musica (che ci piace, no?) possiamo affiancare il film di Renck al brano Spaceman dei The Killers, incredibilmente vicini per contenuto e significato. La canzone della band inglese parlava della fantasia di essere rapiti, fuggire lontano dalla Terra e dalla società, un viaggio mentale che però contiene il rischio di esserne fagocitati, perdendo la possibilità di poter tornare indietro. Un tema classico, al centro della vicenda del cosmonauta ceco Jakub (Sandler) che diventa l’uomo che più si è allontanato dal suo pianeta andando oltre Giove, alla ricerca di una nuova materia spaziale o una nuova forza universale (fate voi), oppure, semplicemente, per fuggire dalle proprie responsabilità. La ricerca ossessiva di una solitudine dove poter espiare le colpe per un padre che si è macchiato di ignominia e che ha segnato il suo passato turbolento e in cui poter trovare riparo da una storia d’amore che lo ha portato ad una paternità a cui non è pronto. In sostanza Jakub se ne è andato a oltre 500 milioni di km dalla Terra, lasciando sola e abbandonata la moglie Lena (Mulligan, Maestro), incinta di suo figlio e giustamente (parere nostro) decisa a tagliare i ponti con lui. Anzi, sarebbe meglio dire “assecondando il desiderio dell’uomo di tagliare i ponti”.
La solitudine diventa quindi uno status figlio di una decisione consapevole, che però andando avanti si rivolta contro il cosmonauta, che tenta di spezzarla in ogni modo anche evocando un ragno intergalattico dai modi molto gentili chiamato Hanus (il ruolo inaspettato di Dano, The Fabelmans), interessato al viaggio interiore che l’uomo sta compiendo, fluttuando verso la luccicante materia spaziale. Per uscire da essa dovrà però risolvere i motivi che l’hanno spunto a ricercarla. Da viaggio nell’ignoto dell’universo a viaggio verso l’ignoto di se stessi la distanza è breve, specialmente quando il polo attrattivo ha la capacità di alterare lo stato mentale di colui che sta compiendo la traversata. Un altro tropo fantascientifico, divenuto materia cinematografica negli adattamenti di Solaris, anche se parliamo di un’altra categoria qualitativa.
Due solitudini alla ricerca di una connessione
L’inizio di Spaceman è quasi fantasy, accordato secondo le note di musica classica, uno dei pochi momenti in cui è presente un bravo vero e proprio, perché l’intero film si svolge di fatto nel silenzio assordante di un’astronave alla deriva nello spazio. Le diramazioni della pellicola, che siano visive, sonore, semantiche, partono tutte da questo luogo chiuso, che è metafora della mente del suo abitante. L’intenzione è proprio quella di far combaciare l’inizio e la fine di questi sentieri immaginifici, intervallati da un controcampo sulla Terra, in cui la moglie del protagonista si fa rappresentante di un piano reale, raziocinante e giudizioso, completamente distante da quello dell’uomo. Egli infatti ragiona su un altro piano, lontanissimo da quello della donna e fatalmente egoriferito.
L’avvicinarsi a questa verità misteriosa evoca un coinquilino, il germoglio di un pensiero nuovo, esterno a questo circolo vizioso, che è rappresentato dal gentile ragno intergalattico. Un accompagnatore, una guida verso la rivelazione, unica in grado di creare una nuova connessione tra i due coniugi, al di là di tempo e spazio. Quella di Renck è pellicola dalla lettura piuttosto semplice, che prova in qualche modo complicarsi la vita, ma non ci riesce e questo gioca molto a suo favore. La sua incapacità di rendersi complessa è ciò che la salva, conferendo alla narrazione di poter beneficiare di quella dolcezza superficiale che però riesce ad allietare il minutaggio allo spettatore. Un film sull’attesa che non è in grado di giocare in toto con l’aspetto stancante di questa trovata rischia di autodistruggersi. Di contro non sorprende praticamente mai, né nelle trovate visive (a volte anche sconnesse) né in quelle tematiche. Forse una storia sulla routine del cosmonauta sarebbe stata più interessante, anche se per farla sull’attesa bisogna saperci giocare.
Dove Spaceman risulta riuscito (almeno in parte) è nelle contrapposizioni di piani, evidenziate da un cambio di passo di ritmo e regia. Un aspetto che viene abbandonato dalla volontà conciliativa del film, che vuole arrivare ad un incontro piuttosto che ad una separazione. Vuole ribaltare il senso della solitudine, vuole farne incontrare due, in modo che almeno una si renda conto che può avere la possibilità di connettersi di nuovo, uscendo dall’astronave. Quando hai questo obiettivo lampante dall’inizio e non brilli nella costruzione e nella messa in scena ti giochi tutto nel finale. Un rischio grande.