Spaccapietre, il film presentato in Concorso alle Giornate degli Autori di Venezia 77, porta alla ribalta i gemelli Gianluca e Massimiliano De Serio, registi di questo cupo dramma “neo-realista” – ma, soprattutto, verista – sulla piaga del caporalato nel meridione italiano, raccontando la difficile storia di una famiglia alle prese con il lutto, la sua elaborazione, la difficile sopravvivenza e una promessa fatta da un padre a un figlio: restituire a quest’ultimo la madre perduta, ad ogni costo. Il film, presentato nel corso della giornata del 7 Settembre al Lido, uscirà nelle sale italiane in contemporanea, ben rappresentando quella volontà di far ripartire l’industria dell’audiovisivo, messa in ginocchio dall’epidemia di COVID-19.
Puglia, giorno d’oggi. Giuseppe e Angela sono gli amorevoli genitori del piccolo Antò: l’uomo purtroppo non può più lavorare nella cava dove ha speso la sua esistenza, a causa di un incidente sul lavoro che gli ha lasciato un occhio offeso e un dolore incolmabile nel dover vedere sua moglie mentre si prepara per andare a lavorare nei campi. L’esistenza precaria di queste tre persone viene distrutta dalla morte accidentale di Angela: tutto inizia a cambiare, padre e figlio non possono più permettersi la loro vita e sono costretti ad andare a vivere tra i lavoratori stagionali dei campi, lavorando proprio per quelle persone che hanno causato la morte della donna per via dei metodi illegali e inumani imposti ai braccianti.
Spaccapietre è un racconto “neo-realista”, ma non nel senso cinematografico del termine: recuperando un’antica tradizione letteraria, i gemelli De Serio cercano di narrare la realtà che ci circonda senza fronzoli, evitando accuratamente qualunque elemento capace di edulcorare i tragici fatti di cronaca che apprendiamo, ogni giorno, dai telegiornali. Più che “neo-realista” è un racconto anche di formazione con un taglio verista, pronto a recuperare la lezione cruda e spietata della narrativa di Verga, con lo sguardo poggiato delicatamente sulle vite degli ultimi e degli emarginati.
Un racconto di formazione perché, al centro della scena, c’è un bambino: Antò – un intenso Samuele Carrino – che assiste lentamente alla “cannibalizzazione” della sua infanzia, strappata a poco a poco dalla morte, dagli ostacoli, dagli eventi e dall’amarezza di una vita che sembra aver voltato le spalle ai disperati protagonisti. Il dramma della rielaborazione del lutto passa per il delicato rapporto tra figlio e padre, quest’ultimo incarnato dalla mole imponente di Salvatore Esposito (volto simbolo della serie Gomorra).
Esposito è il volto giusto per rappresentare questo dramma dell’era moderna: una figura rassicurante che fa una promessa al figlio e che cerca, in tutti i modi, di mantenerla ad ogni costo; quello che compiono insieme è un viaggio on the road nell’oscurità dell’animo consumato tra crudeltà, efferatezze e inaspettati slanci di normalità. Spaccapietre è un’elegia degli ultimi; una cronaca in tempo reale del dramma che s’insinua nella vita fino a stravolgerla completamente, mettendo a repentaglio gli affetti stabili e le certezze sulle quali sono basate le esistenze di tutti noi.
Il tema trattato, quello del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori stagionali nei campi, pur rientrando nel filone del “cinema di denuncia” non è poi stato trattato troppo spesso dalla cinematografia italiana contemporanea; le scelte tecniche ed estetiche dei De Serio accomunano la resa finale ai tanti progetti volti a raccontare la provincia e le periferie del Belpaese, tutti alla continua ricerca di nuovi linguaggi per narrare il reale, distaccandosi sempre meno dal “verismo”, parcellizzando le variazioni di genere e prediligendo invece un racconto asciutto e tagliente proprio come una pietra, pronta a ferire e a sconcertare lo spettatore.