Ogni grande artista è un oceano sconfinato di bellissimi sentimenti contrastanti. E sono proprio quei sentimenti, tutte quelle luci e tutte quelle ombre che apparentemente sembrano convivere in perfetta armonia, a rendere un grande artista tale.
Rocketman fa quello che dovrebbe fare ogni film dedicato a qualcuno che la storia della musica ha contribuito a scriverla e cambiarla (e che sì, Bohemian Rhapsody purtroppo non ha fatto!): scavare a fondo nell’anima dell’uomo che si cela dietro quel grande artista, facendo emergere come la fonte inestimabile e più potente di qualsiasi ispirazione sia il dolore, inteso tanto quanto mancanza, perdita o solitudine, tanto quanto bisogno incessante di sentirsi amati.
Il più grande pregio del film – presentato in anteprima mondiale, fuori concorso, a Cannes 2019 e in uscita nelle nostre sale a partire dal prossimo 29 maggio – è quello di riuscire a travalicare i confini del biopic e del musical per imporsi con sorprendente ed entusiasmante fluidità narrativa come il dramma di un uomo che fin da bambino ha sempre respinto qualsiasi tipo di omologazione e che, al di là del successo e della fama, aspirava in realtà ad un solo, autentico, forse ingenuo ma sicuramente nobile obiettivo: essere amato.
La storia di Rocketman è quella della nascita di una stella del firmamento musicale che per grande parte della sua ascesa tra l’olimpo dei giganti delle sette note ha dovuto fare i conti con la dipendenza: non solo dall’alcol, dalla droga e dal sesso, ma anche dall’amore, sentimento del quale non ha mai potuto fare a meno e dal quale, invece, è sempre stato respinto, soprattutto dalle figure più importanti della sua vita, a partire da quelle genitoriali.
Le tappe della trasformazione da Reginald Kenneth Dwight a Elton Hercules John sono un susseguirsi di eventi travolgenti che determinano i contorni di una personalità traboccante e tossica, vittima dei vizi e degli eccessi. Questo meraviglioso viaggio dalle risonanze oniriche e dai tratti tipici del racconto fantastico ci viene presentato attraverso i grandi classici del baronetto inglese (cantati realmente dal protagonista Targon Egerton), secondo un ordine che non è cronologico, quindi legato alla straordinaria carriera dell’artista britannico, ma è piuttosto un ordine interno al racconto vero e proprio, legato quindi agli avvenimenti che di volta in volta ci vengono mostrati e dei quali siamo assuefatti e sbalorditi spettatori.
Sin dall’inizio del film è palese quale sia l’intento del regista Dexter Fletcher (lo stesso che ha portato a termine i lavori su Bohemian Rhapsody dopo il licenziamento di Bryan Singer), al quale non interessa la ricostruzione cronologica o l’elogio strabiliante di quella che è stata una carriera fulminante. Il ritratto deve essere solo e soltanto uno: quello dell’uomo, non dell’artista! Un Elton John all’apice del successo capisce che è arrivato il momento di riprendere in mano le redini della sua vertiginosa esistenza, giocando per la prima volta a carte scoperte.
Comincia così un emozionante viaggio a ritroso nella memoria che, alla fine, costringerà Elton a scendere a patti con Reginald, a riconciliarsi con il suo passato e a far sì che sia proprio l’amore, quel sentimento che per tanto, troppo tempo gli è stato negato, a tenerlo ancorato alla realtà, senza lasciarsi divorare dalla solitudine e smettendola di giocare con quel torbido equilibrio che esiste tra la vita e la morte.
Eccellenza artistica e mediocrità umana si fondono dunque nella parabola umana messa in scena da Fletcher, anche dal punto di vista visivo: il regista dà infatti il meglio di sè nell’orchestrare i momenti musicali del film, ognuno dei quali riesce ad esprimere all’ennesima potenza quel dilaniante dualismo alla base della vita e della personalità di Elton John, che ha sempre nascosto fragilità e insicurezze sotto la patina sgargiante del look più stravagante.
Un Elton John straordinario tanto quanto artista tanto quanto uomo, che rivive sullo schermo grazie alla performance intensa, nervosa, inquieta di un Taron Egerton folle ed esagerato, vero cuore pulsante di tutta l’operazione, in grado di veicolare anche con una semplice espressione del viso la più struggente delle emozioni, e capace di passare dai momenti più esuberanti ed eccentrici a quelli più drammatici e delicati con ammaliante sicurezza, dimostrando una maturità che lascia senza parole.
Rocketman (qui il trailer italiano ufficiale) non è solo un biopic che celebra il vissuto di un grande artista, né tantomeno è soltanto un musical autentico che racconta una storia di ascesa, caduta e risalita. È soprattutto il bellissimo dramma umano di una figura schiacciata dalla solitudine che ha accettato la sconfitta e, attraverso la redenzione, ha imparato a vivere di nuovo (o meglio a “restare in piedi”, come recita il brano che accompagna la sequenza finale del film); un vero “uomo razzo” sia sopra il palco sia lontano da esso, che durante tutta la sua esistenza non ha fatto altro che sperare di essere amato e di poter amare a sua volta, le due cose più semplici del mondo che mai a nessuno dovrebbero essere negate.