Pensando alla carriera di un cineasta come Marco Bellocchio risulta strabiliante la sua capacità, ad ottantatré anni, di raccontare ancora delle storie inedite capaci di svelare la collettività a partire da singoli fatti di cronaca: è la Storia a riflettere, come uno specchio, le contraddizioni umane e i chiaroscuri che dipingono tanto la psiche quanto le dicotomie del reale, diviso tra potere temporale e spirituale, stato e chiesa, corpo e anima.
Il regista romagnolo non solo lascia che ogni sua opera venga attraversata da questi fili rossi, fino a creare un dialogo ininterrotto tra i vari film girati, tasselli infinitesimali di un mosaico ben più ampio e complesso che rappresenta una poetica ben specifica; ma accompagna la necessità di narrare nuove tematiche, ogni volta diverse, con quella di sperimentare sul piano estetico-registico, fondendo insieme linguaggi e meccanismi che si muovono nel limbo sottile tra realtà e sogno.
Fin da sul debutto nel 1965 con I pugni in tasca, Bellocchio ha dimostrato il proprio interesse per la scena politica e per una ferma decostruzione dei rituali sociali che appartengono ad un mondo borghese, riconfermando il proprio atteggiamento anticonformista ed estremamente critico nei confronti delle istituzioni secolari, siano esse temporali o religiose. E proprio questa dicotomia attraversa febbrilmente l’ultima opera del grande cineasta, ovvero Rapito, pronta ad uscire nelle sale il 25 maggio dopo il trionfo alla lunga notte dei David di Donatello, che ha visto trionfare la precedente opera del regista – Esterno Notte – nelle categorie maggiori.
Ancora una volta, Bellocchio ritrova molti degli attori già presenti nella serie in due parti (o sei episodi) sull’affaire Aldo Moro, oltre ad altri volti già presenti nei suoi film: tra gli altri, Barbara Ronchi (premiata anche lei con il David per Settembre), Fausto Russo Alesi (l’eccezionale Cossiga di Esterno Notte), Fabrizio Gifuni (un premiatissimo Aldo Moro), Filippo Timi e Paolo Pierobon (visto di recente ne La caccia), straordinaria “new-entry” di questo nutrito cast di volti ricorrenti del cinema del regista.
Rapito parte da un orrendo fatto di cronaca italiana, verificatosi nel 1858, quando nel quartiere ebraico di Bologna i soldati di Papa Pio IX fecero irruzione nella casa della famiglia Mortara: per ordine del cardinale, dovevano prelevare Edgardo, il loro figlio di sette anni. Secondo le dichiarazioni di una domestica, ritenuto in punto di morte intorno ai sei mesi, il bambino era stato segretamente battezzato. La legge papale era inappellabile: il bambino doveva ricevere un’educazione cattolica.
I genitori di Edgardo, sconvolti, fecero di tutto per riavere il figlio; sostenuta dall’opinione pubblica e dalla comunità ebraica internazionale, la battaglia dei Mortara assunse così, molto presto, una dimensione politica. Ma il Papa non accettò mai di restituire il bambino e, mentre Edgardo continuò a crescere nella fede cattolica, il potere temporale della Chiesa iniziò a vacillare sempre di più, minato dalle truppe sabaude pronte a conquistare Roma.
Accolto con successo a Cannes – primo degli italiani in concorso, insieme a Nanni Moretti e Alice Rohrwacher – Rapito si configura, in primis, come un affresco storico estremamente suntuoso e affascinante che ricostruisce, nei minimi dettagli, un tempo lontano e abbastanza “inedito” per il grande schermo: quella che scorre sulla saettante lingua d’argento è, infatti, un’Italia risorgimentale prima dell’unificazione e della presa di Roma nel 1870, immortalata come in uno dei tanti quadri del pittore Ettore Roesler Franz.
Uno sforzo titanico tra scenografie, trucco e parrucco per evocare un mondo “sparito”, riportato in vita non tanto per mostrare degli eventi salienti della Storia (la fine dello Stato Pontificio; la Breccia di Porta Pia) ma per utilizzare quest’ultimi come correlativi oggettivi della nostra realtà, espedienti narrativi per riflettere sul ruolo e la funzione dello stato. Proprio come accadeva in Sbatti il mostro in prima pagina, Buongiorno, Notte e nel citato Esterno Notte (tra i tanti), l’anticonformismo militante di Bellocchio instilla nello spettatore il dubbio semplicemente mostrando i fatti, prendendo posizione ma garantendo una pluralità costante di voci e punti di vista.
Un evento particolare diventa una narrazione universale
In Rapito l’analisi dei rapporti tra Stato e Chiesa – e i ruoli che ricoprono – continua incessante, immortalando entrambi in un dialogo ininterrotto ora acceso e feroce, poi contraddittorio e indivisibile: si tratta di due realtà che hanno bisogno l’una e l’altra per sopravvivere e, sul piano ontologico, esistere. Ma a ricoprire un ruolo preponderante, nell’economia del racconto, è senza dubbio la cronaca intesa come la capacità di trasformare un evento particolare in una narrazione universale in grado di smuovere le coscienze.
E la storia del rapimento del piccolo Edgardo Mortara ha già in sé tutti gli elementi per garantire una cronaca disturbante ed emotiva, nonostante un leggero squilibrio narrativo che segna il passaggio cruciale tra gli atti. Il set-up si prende il tempo giusto per raccontare, nel dettaglio, i fatti: l’azione drammatica progredisce tra pathos e particolari, fino ad arrivare ad un brusco cambio, in concomitanza con la seconda metà del secondo atto. Perché superato il punto di non ritorno (in termini drammaturgici), l’attenzione di Bellocchio sembra spostarsi automaticamente sui grandi eventi, accelerando l’arrivo di un epilogo leggermente depotenziato, che annoda comunque i fili della vicenda dei Mortara intersecandoli con quelli della grande Storia.
E proprio il racconto degli eventi che segnarono la famiglia Mortara aveva già catturato la curiosità di altri grandi cineasti, come ad esempio Steven Spielberg: ma di sicuro solo Marco Bellocchio ha la capacità di scuotere le coscienze scioccando, anche grazie alla potenza evocativa delle immagini. Allegorie in movimento, tableau vivant, spettri che si aggirano nella mente dei protagonisti e vignette satiriche che prendono vita, trasformandosi in incubi perturbanti nati dal sonno della ragione.
Esattamente come accadeva in Esterno Notte, nel quale il dilemma morale di Cossiga assumeva le connotazioni grottesche di un dramma shakespeariano, anche in Rapito spetta a Papa Pio IX (interpretato da un impressionante Paolo Pierobon) la maschera più contraddittoria e affascinante che, attraverso le proprie idiosincrasie, si insinua lentamente nella vita del piccolo Edgardo fino a “contaminarla”, creando una frattura insanabile tra un “prima” e un “dopo”.
Perché Rapito è anche il racconto di una porzione meno nota della Storia, che riporta – sotto le luci dei riflettori – le tante cronache mute di ebrei convertiti e costretti a rinnegare la propria religione per sopravvivere agli eventi esterni; episodi che hanno costellato i secoli e che rischiano, altrimenti, di essere dimenticati senza l’opera fondamentale attuata dal ricordo, che tiene accesa la fiammella inestinguibile della memoria.
Il film di Bellocchio è una storia di identità trafugate e riassegnate, di poteri messi in discussione, di dilemmi morali (e religiosi) che dilaniano le coscienze fino a far perdere il senno o la consapevolezza di sé; ed è, del resto, una vicenda ben radicata nella concretezza del passato, pronta però a svelarci molto del presente in cui viviamo grazie all’affilato grimaldello di una lucida riflessione super partes.