Passano gli anni, venti son lunghi, però quel ragazzo (che sentenziava «C’è sempre qualcosa dietro», convinto che sul “Kinder Cereali” attaccassero i chicchi uno ad uno) ne ha fatta di strada. Caratterista per Paolo Virzì, i fratelli Vanzina, Denis Rabaglia. Ideatore, insieme a Enrico Battocchi ed Alessio Porquier, dell’associazione “Nido del Cuculo” («Ora ti rimando a Ghezzano da tu mà» urlò Jack Torrance alla moglie) dall’humus della quale è sorto il Joe D’Amato Horror Festival. Classe ’78, Paolino Ruffini non si è tolto di dosso la maschera pacioccona e “toscanamente” malandrina che conoscemmo meglio tra la fine del liceo e l’inizio dell’università (solo lui poteva dar voce a Lucignolo nel bel Pinocchio di D’Alò) eppure ha saputo sorprenderci, accettando che c’è un tempo per “demolire” con ironia e un tempo per “costruire”. Distribuito da Adler Ent., Ragazzaccio, ottava regia di Ruffini (recuperate, se non l’avete visto, il documentario PerdutaMente), è una piccola “fiaba” moderna ansiosa, per l’appunto, di costruire. Anzi, “ricostruire”. Ma cosa? Lo sguardo degli adolescenti sui mutamenti che li investono, restituendo loro la parola che quotidianamente, in una maniera o nell’altra, gli viene sottratta, minimizzata, confinata in soggetti e contesti sociali (es. La paranza dei bambini) non sempre o non necessariamente “universali”; rappresentativi, cioè, di quell’intensa, cangiante stagione della vita.
Di rado, nell’ultimo sessennio, il cinema italiano si è interrogato su cosa sognino e patiscano nell’intimo i giovanissimi (fra le eccezioni L’età imperfetta, Cuori puri), questioni acuitesi durante la prima ondata di contagi da Coronavirus (marzo-maggio 2020). Un fascicolo collettivo del “Progetto Itinerante Notturno” di Torino, forte di studi clinici e sondaggi nazionali, riporta la fascia d’età nella quale si sono verificati i disagi maggiori: tra gli 11 e i 23 anni. Una nuova percezione del tempo e dello spazio. Solitudine, senso di inutilità, improvvisa cognizione dei limiti della natura e dell’identità umane, afflizioni che sfociano in atti brutali verso gli altri, verso la famiglia e verso sé stessi. Scritto da Davide Dapporto, Ragazzaccio si muove proprio fra queste “macerie”, presentandocele attraverso gli occhi di un diciottenne (Alessandro Bisegna) e dei suoi genitori prostrati, come ognuno di noi, da una notte scesa di colpo, la cui fine, però, ancora si fatica a scorgere.
La pandemia è cominciata. Volano schiaffi, urla isteriche, congetture, luoghi comuni che consolano impedendo, tuttavia, di capire. Il padre (Massimo Ghini), infermiere di pronto soccorso, precipita subito in quell’inferno ospedaliero che, ora dopo ora, vedemmo passare in soffocanti squarci sulle emittenti di tutto il mondo. Non più nel fiore degli anni e tentata da molti rimpianti, la madre (Sabrina Impacciatore) gioca la carta dell’epidermide in un sito per adulti. Mattia, così si chiama il diciottenne, viene eletto “giullare” della classe: fa rutti, pernacchie, snocciola trivialità, approfitta degli inconvenienti tecnici della didattica a distanza; varca, poi, ogni limite creando una vignetta offensiva su un coetaneo poliomielitico in sedia a rotelle. “Faltan cabezas” (lett. “mancano le teste”) si lamentava secoli addietro il duca di Olivares. Stavolta è qualcos’altro a mancare: la capacità di esprimere l’amore, esprimersi in sé. Mattia è in un certo senso “condannato”, da un’infinità di fattori, a fare delle cose che non gli somigliano: un volenteroso professore di lettere (Beppe Fiorello) e Lucia (Jenny De Nucci), graziosa e matura compagna di scuola, lo hanno intuito. E non stanno al “gioco”. Imparerà, insomma, Mattia a guardarsi da Mattia?
Il merito di aver tentato…
Quando l’ambiente esterno solletica (e talvolta applaude, perfino) la parte peggiore, distruttiva di noi è sufficiente rispondere di “no”? Il nostro essere si limita al “ruolo” e alla “somma di competenze” che gli altri (amici, insegnanti, datori di lavoro ecc..) ci affibbiano? Se il bullismo non è prepotenza arbitraria bensì un primo, “informe” segno della logica del potere, avallata e legittimata a diversi livelli dagli adulti, è possibile arginarlo per tempo, eradicarlo attraverso la cultura, la bellezza, allargando così gli spazi del discernimento? Estendendo il discorso, quale domani per l’Italia? Il bisogno di riflettere, la vicinanza di Ruffini e Dapporto nei riguardi dei personaggi, della materia trattata sono sincere e fuori discussione. L’esito finale, ahimè, se non è pessimo poco ci manca. La colpa non è loro e neppure degli interpreti, soprattutto Ghini che offre, dopo A casa tutti bene di Muccino, la migliore fra le sue recenti prove (assai toccante la scena della telefonata in terrazza). La colpa è… della realtà.
No, non è una boutade. Ragazzaccio costringe, infatti, a interrogarsi a fondo su cosa significhi oggi per un giovane regista raccontare, se è il suo scopo primario, ciò che sente e vede. In un certo senso, se valga ancora la pena raccontarlo dal momento che la realtà (quella urbana, perlomeno) pare aver cessato di essere “reale” del tutto e il contesto (reti sociali, tv, relativi linguaggi ed effetti psicologici) a tal punto la determina, la plasma, la qualifica che gli stessi individui, i loro stessi volti, corpi e voci (giovani o maturi) non sembrano avere più nulla di “misterioso”, di complesso, interessante. E, quindi, di “vero”. Sarebbe troppo comodo chiamare in causa l’influenza del teleschermo, delle fiction: il discorso è diverso, più sottile. Vuoi per ciò che dicono, per il modo di presentarsi, di ragionare, tutti, dentro e fuori dal set, escono ormai come “in serie”, viventi stereotipi: appaiono, sì, ma, per paura o addirittura impossibilità, non “sono” mai. L’approccio, la tecnica, la “tenerezza” dei passati maestri (Comencini, Emmer, Zurlini, Giraldi ecc..) non sono dunque più di casa e in sala, a luci riaccese, scende il gelo sul quel pubblico che avrebbe ancora fame di vita vera, di vita piena. Senza volerlo, le immagini di Ruffini hanno colto il lascito più grave di questo biennio: la raggiunta uniformità tra il Mercato e quasi ogni forma di espressione umana. Qualcuno sogghignerà, altri sbufferanno, nondimeno per lo scrivente Ragazzaccio rappresenta il primo, autentico documento della “post-realtà” finora consegnatoci dalla filmografia nostrana del Duemila.
«Ci rivedremo da grandi quando saremo stanchi, sì ci rivedremo» canta Arianna Del Giaccio (alias Ariete) sui titoli di testa. Aspettiamo quel giorno, nella speranza di ritrovarci, oltre che stanchi, un po’ più assennati. All’attivo: le musiche di Claudia Campolongo, i contributi di Paolo Sansoni (Security) alle scene, di Tani Canevari (Ghost Son) e Gianluca Braccieri alla fotografia. Si consigliano, per un confronto, Le voci sole di Brusa e Scotuzzi e il duro Un monde – Il patto del silenzio di Laura Wandel, prossimamente in sala con Wanted.