Che Dio ci conservi l’Ungheria! In passato il suo cinema generò, fra montagne avvolte da turbini di nebbia, nuvole e antiche ballate nei campi di grano, István Szőts; poi Miklós Jancsó con le sue “apocalissi” danzanti di tortore, cavalli, fiocchi rossi e virginali nudi in pianori che si estendevano a perdita d’occhio; nell’ultimo quadriennio la labirintica “isola” della Belle Époque che ha per nome Budapest (“cornice” di Tramonto di László Nemes) le cui atmosfere iperreali, reticenti, sottilmente morbose parevano ammiccare alla novella “Mine Ha-Ha” di Wedekind… oggi è Lili Horvát a continuare la tradizione.
Classe ’82, allieva della visionaria Ildikó Enyedi (Il mio XX secolo, Corpo e anima), un esordio (Il bambino del mercoledì) felicemente salutato al Trieste Film Festival del 2016, la giovane regista, personalità in feconda trasformazione, meriterebbe quasi un abbraccio, oltre che la più sentita attenzione. Guardando Preparativi per stare insieme un periodo indefinito di tempo (Felkészülés meghatározatlan ideig tartó együttlétre, in originale; Preparations to be together for an unknown period of time sul mercato anglofono) – qualcuno, sorridendo, penserà ai titoli chilometrici di Lina Wertmüller, altri alle Canzoni Dada dei vicentini Plasticost, es. “Alla ricerca di piccoli piaceri quotidiani prima della partenza” – non si può, infatti, non restare meravigliati.
È un’opera raffinatissima, appena appena un po’ “chiusa” e fredda, da annoverarsi comunque fra le più importanti in questo inizio 2023: grazie ad essa, con sagome e richiami nuovi, tornano a volteggiare sugli schermi gli “spettri” di una filmografia, quella di Alain Robbe-Grillet (1922-2008), che temevamo irrimediabilmente consegnata al passato o confinata nella pur vivace nicchia dei “topi di cineteca”: fantasticherie, le sue, che ammiccavano, senza mostrare né chiarire. Cerebrali? È probabile ma… se si era disposti ad abbandonarsi, al pari di un adolescente preso dal “sentire” prima ancora di “comprendere”, esse possedevano, abitavano totalmente, insinuando che i déjà vu potevano non essere coincidenze bensì precisi segni, irruenti e spesso “inaccettabili”, di una seconda vita (di Ieri come di Domani), che l’Uomo è qualcosa di “meglio” della Carne, dei Compiti assegnatigli e… consumarsi, esalare l’ultimo respiro preludono a qualcosa che va oltre il semplice spegnersi.
Dallo scambio fra Márta e János, protagonisti della storia, giungono gli echi più eterogenei. Talentuosa neurochirurga rientrata alla nativa Budapest dopo un tirocinio nel New Jersey, lei (Natasa Stork) fissa i propri pensieri su di lui (Viktor Bodó), rinomato collega presentatole al termine di un seminario. «Da piccolo mio padre mi portava con sé in battello dove facevo un gioco: abbattevo con la forza della mente gli edifici che non mi piacevano, silurandoli. Lo stesso faccio in sala operatoria: demolisco certe costruzioni del paesaggio-mente. Il paziente perderà delle facoltà, ne conseguirà la paralisi di un arto, di una parte del viso… ma almeno potrà continuare a progettare, esprimersi, agire. Il ‘villaggio’ non ci sarà più, la ‘fortezza’ rimarrà intatta» espone János in una conferenza avente al centro la sua ultima pubblicazione.
Un’opera raffinatissima, da non perdere
All’insolita domanda («Lei crede ai fantasmi?») di una studentessa alzatasi in mezzo al pubblico, il nostro si divincola con una facile battuta, illuso di scrollarsi di dosso il disagio. Sarà costretto a crederci, in un modo o nell’altro: perché è nel “villaggio” della mente, dabbasso, e non nella “fortezza” che tutto può accadere, anzi, sta già accadendo sotto il naso dell’uomo, lontano da ogni formula di comodo, sapere miseramente umano.
Fantasma molesto o benigno, non si sa (né si saprà) fino in fondo, Márta penetra nei pomeriggi lavorativi, nelle pause, negli spazi di János il quale non la riconosce, magari non vuole riconoscerla, sostenendo che l’incontro non ha mai avuto luogo, se non nella testa della donna. Márta insiste, delusa dalla disattenzione («Perché ti ostini a non ricordare?») di colui che ritiene l’Amato, l’unico che potrà mai proteggerla, destinato, da un disegno ad entrambi sfuggente, a starle per sempre accanto. «Non è vero che abbiamo bisogno dell’assenza, della solitudine, dell’eterna attesa»: la supplica di Monsieur X (Giorgio Albertazzi) alla Sconosciuta (Delphine Seyrig), personaggi principali de L’anno scorso a Marienbad, rivive sessant’anni dopo il capolavoro di Resnais (scritto da Robbe-Grillet) nei gesti e nella condotta di Márta.
Cosa nascondono realmente i suoi silenzi, il volto, i profondi occhi blu alla Liv Ullmann? Di cosa è al corrente una vecchia amica (che da settimane, preoccupata per la sua salute, le scrive delle lettere) che lo spettatore, viceversa, ignora? È tutto vero quanto sta accadendo? Sarà forse un sogno? O addirittura lo “strano caso” di due anime vaganti delle quali una sola è cosciente di essere tale mentre l’altra si illude ancora di “esserci”, di indossare quei panni, di “trovarsi lì”?
Lasciamo un po’ di mistero, è meglio, sebbene nelle strofe di “Gute Nacht”, canzone del ciclo “Viaggio d’Inverno” di Schubert, sia riassunto e riposto il significato più autentico del film: “Come un estraneo sono comparso, / come un estraneo me ne vado. / […] Per questo viaggio non m’è dato di scegliere il tempo, / da me devo trovare la via in quest’oscurità… […] / Che cosa mi trattiene, da quando mi hanno cacciato? / L’amore ama girovagare – così l’ha fatto Dio – dall’uno all’altro. / Amore mio, buona notte! / Non ti turberò nel sonno, voglio la tua pace; / camminerò in punta di piedi, / pian piano chiuderò la porta! / Passando ti scriverò sull’uscio: buona notte. / Così avrai la prova che io t’ho pensato.”
A voler essere onesti il soggetto di Preparativi per stare insieme… rischia di non valer di più di un puro caso clinico d’ossessione amorosa – da mettere a confronto con altre due diversissime opere: À la folie… pas du tout (2002) di Lætitia Colombani e La spettatrice (2004) di Paolo Franchi – che può suscitare, a seconda delle sensibilità, tenerezza o irritazione eppure, come su accennato, il riferimento spontaneo e latente alla poetica di Robbe-Grillet – e, in egual misura, ad alcuni dei temi cari al tardo Rivette (es. Storia di Marie e Julien) o, nel complesso, al cinema di Kieślowski – lo eleva e lo sublima. Impeccabili i contributi di Sandra Sztevanovity (Viktoria, Budapest Noir) alle scene e Róbert Maly per le diafane immagini.