Pinocchio è il nuovo adattamento dell’eterno classico della letteratura per ragazzi che il regista Matteo Garrone ha realizzato giusto in tempo per le festività natalizie; una fiaba senza tempo capace di coinvolgere emotivamente i bambini ma soprattutto gli adulti, grazie alla forza dirompente dei propri messaggi (subliminali e non), delle metafore e delle ardite allegorie disseminate all’interno della narrazione, che il regista romano ha deciso di tradurre fedelmente in immagini, trasgredendo pochi passaggi dell’originale grazie anche alla complicità dell’attore Massimo Ceccherini, presente nel film nel ruolo della Volpe ma anche nella veste inedita di co-sceneggiatore.
Accanto al già citato Ceccherini, il cast vanta validissimi attori come il Premio Oscar Roberto Benigni (che fu già Pinocchio nella sua versione del 2002), Gigi Proietti, Rocco Papaleo, i fratelli Massimiliano e Gianfranco Gallo, Teco Celio e le giovanissime promesse Marine Vacht e Alida Baldari Calabria (nel doppio ruolo della Fata Turchina), oltre al piccolo protagonista Federico Ielapi, nei panni del più famoso burattino senza fili di sempre.
Il talento visivo – e visionario – di Garrone riporta in vita, nella nostra società pronta a superare abbondantemente il 3.0, la fiaba immortale del piccolo e testardo burattino senza fili Pinocchio: ostinato a far di testa sua, si ritroverà ad affrontare numerose avventure (e disavventure) alla ricerca del padre – il falegname Geppetto – contando sulle sagge, ma spesso inascoltate, parole del Grillo Parlante e sull’amore incondizionato della tenera Fata Turchina che cercheranno di aiutarlo nel proprio percorso di crescita per diventare un bambino in carne ed ossa.
La storia di Pinocchio è fin troppo nota al grande pubblico, usata e abusata, patrimonio talmente consolidato dell’immaginario collettivo della pop culture da trasformarsi in un insidioso banco di prova per i registi: per quanto grandi nomi come Spielberg, Del Toro e Benigni stesso ne siano rimasti soggiogati nel corso degli anni, questo adattamento incarna sempre un rischio latente, forse il pericolo di deludere le aspettative di un pubblico (sempre più smaliziato) che ha scelto di affidare alla propria immaginazione iperattiva la creazione di un mondo fantastico popolato da burattini parlanti, animali antropomorfi e fate dai capelli turchini.
Contro ogni pronostico, laddove gli altri hanno tentennato, Garrone è riuscito a imprimere il proprio graffio incisivo ridefinendo i contorni di un mondo letterario: perché la sua versione di Pinocchio, per quanto fedele al romanzo di formazione di partenza, è capace di veicolare con vibrante persuasione messaggi, metafore, allegorie finora tenute solo sullo sfondo, capaci invece di esplodere in questo caso grazie alla forza visiva di un immaginario e alla dolcezza dei sentimenti tirati in ballo.
Nel film il motore immobile di tutte le trame e sotto-trame che animano la narrazione è il concetto stesso di amore: che si tratti di quello che lega padre e figlio (Geppetto e Pinocchio) o di quello disinteressato – ma senza limiti – della Fata Turchina nei confronti del burattino stesso, è l’amore la forza salvifica che permette di superare le difficoltà, gli ostacoli posti lungo il cammino mettendo anche a nudo il cuore malvagio dei malintenzionati; l’amore e la fede incrollabile – e ostinata – nei miracoli, perché in fin dei conti per amare serve o no un profondo atto di fede alla base?
Garrone è capace di sollevare dubbi morali, di impartire lezioni senza però mai trascendere nel retorico: riconferma anzi con vigorosa delicatezza la propria natura di “direttore d’attori”, di eccellente demiurgo capace di orchestrare un ensemble di attori completamente diversi tra loro per formazione, estrazione, percorso e carriera; il risultato finale è uno splendido affresco a più voci dove ogni presenza è funzionale al racconto, dettaglio imprescindibile di una visione d’insieme più grande e complessa.
Ma il Pinocchio di Matteo Garrone è erede anche dell’esperienza de Il Racconto dei Racconti, che il regista ripropone nell’attenzione maniacale per il dettaglio, per i costumi, per il trucco prostetico unito ai prodigi della CGI; e tutto ha, come unica finalità, quella di riuscire a calare in un’atmosfera di estremo realismo (elemento al quale ha abituato il pubblico attraverso la propria filmografia) una fiaba improbabile proprio per via della sua natura. Eppure il regista riesce nel tentativo vincendo la sfida, riuscendo quindi a sospendere a tal punto l’incredulità rendendo plausibile l’incredibile e auspicabile l’impossibile, che si trasforma nella vera fede del povero, ritratto nello splendore beffardo della propria dignità.