Scritto per il teatro dalla sceneggiatrice ungherese Kata Weber e portato sul grande schermo dal marito Kornél Mundruczó, Pieces of a Woman è stato presentato in concorso alla 77ᵃ Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, portandosi a casa la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile di Vanessa Kirby. Comprati i diritti di distribuzione a settembre, Netflix lo distribuirà a livello internazionale il 7 gennaio di quest’anno, cercando, ancora una volta, di sopperire con il proprio servizio all’impossibilità di recarsi al cinema. Ma in questo caso il pubblico sarà soddisfatto di una prima visione dell’opera sul piccolo schermo? O ancora una volta sarà costretto a chiedersi se, visto al cinema, il giudizio sulla pellicola sarebbe stato diverso?
Pieces of a Woman è un film personale, intimo, che racconta la storia familiare del regista e della moglie, così come di tante altre coppie, la storia di un figlio nato in casa e vissuto solo per qualche istante tra le braccia della madre. La prima parte dell’opera è il racconto del travaglio della donna, all’interno della propria abitazione, confortata dal compagno che tenta di rassicurarla e da un’ostetrica diversa da quella scelta dalla coppia per l’occasione. Martha Weiss, interpretata magistralmente da Vanessa Kirby, è una giovane donna cresciuta negli agi di una ricca famiglia di Boston e seguita scrupolosamente nella vita dalla madre ebrea, vittima dell’Olocausto. Quest’ultima, tuttavia, ha un rapporto conflittuale con la figlia, causato soprattutto dal fatto che non accetta Sean Carson (interpretato da Shia LaBeouf) come suo compagno; inoltre non concorda sulla decisione che la coppia voglia far nascere la nipote dentro le mura domestiche.
Il travaglio e il parto di Martha sono – cinematograficamente parlando – un capolavoro: ben 23 minuti di piano sequenza dove la macchina da presa riprende con costanza e perizia le espressioni facciali dei tre personaggi e in particolar modo quelle sofferenti della protagonista partoriente; non solo, la sofferenza viene mostrata anche dai continui spostamenti della macchina da presa, che segue quasi in modo indagatore Martha nel tentativo di trovare una posizione, una stanza, un luogo della casa capace di alleviarle il dolore. Lo spettatore viene rapito e catapultato nella scena, sentendosi coinvolto completamente dal momento rappresentato ed è qui che, probabilmente, gli viene naturale chiedersi cosa avrebbe sortito in lui la potenza di questa sequenza se vista sul grande schermo.
Tuttavia, il film procede con una seconda parte qualitativamente assai inferiore alla prima. Per quanto interessante sia il racconto delle dinamiche familiari successive alla morte della bambina appena nata, non presenta la stessa forza narrativa. Gli eventi rappresentati in seguito fanno luce su tutta una serie di problematiche relative alle insoddisfazioni personali di Sean Carson, che però non dipendono affatto dal recente lutto, descrivendo l’uomo come un poco di buono, immaturo ed incapace. Il racconto della sofferenza di Martha Weiss è privo di carattere, di sostanza e significati e il tutto si riduce alla narrazione del conflitto con la madre (interpretata da Ellen Burstyn) e al processo che quest’ultima vuole a tutti i costi per fare giustizia sull’accaduto, colpevolizzando l’ostetrica presente al parto.
La poesia, la profondità, l’attenzione e la verità della prima parte scompaiono improvvisamente. È come se una grande crepa abbia spezzato il film a metà. Il secondo tempo del film, probabilmente, vuole raccontare troppe cose, troppi eventi narrativi, portandosi dietro il difetto di non approfondirne alcuno. La forza, invece, della prima parte era proprio la focalizzazione della regia su un unico grande evento; è lì che stava la potenza della pellicola ed è quella che si è andata poi perdendo. Sicuramente interessante anche qui, come in Elegia Americana di Ron Howard, l’interpretazione in chiave cristiana del perdono, come unico mezzo capace di far superare le difficoltà del vita e di far rinascere, potenzialmente, l’individuo.