In una bella giornata di sole, mentre passeggia per una tranquilla strada di Laurel Canyon, quartiere dove ha casa a Los Angeles, Pharrell Williams – cantautore, musicista, produttore discografico, designer di moda e chi più ne ha ne metta – partorisce un’idea balzana: perché non fare un film sulla mia vita? D’altra parte i biopic sono da decenni un genere molto apprezzato dal pubblico e destinato a raccontare non solo i defunti. Quindi: perché no? A quel punto, è possibile siano successe due cose: o che Williams abbia pensato “si, ma a chi potrebbe interessare un documentario su di me? In 1,3 miliardi hanno ascoltato Happy su YouTube ma non è detto siano disposti a pagare un biglietto per sentire la mia storia. Serve qualcosa che li spinga in sala…”, oppure “si, ma vorrei fosse un film diverso da tutti gli altri, nerd, colorato, fantasioso, unico”.
È probabile che la verità sia nel mezzo, e che da riflessioni analoghe sia nata l’idea originale di realizzare un film sulla vita del cantante interamente animato nello stile dei Lego, primo produttore di giocattoli al mondo già sbarcato al cinema con piccoli capolavori come The LEGO Movie (2014) e LEGO Batman – Il Film (2017). Lo storico brand danese, che negli ultimi vent’anni si è sapientemente mosso tra IP già consolidate (grazie a licenze di brand come Star Wars, Harry Potter e Minecraft) e un suo immaginario legato alla fantasia e alla creatività, deve aver intravisto in questa proposta un’opportunità per ribadire i propri valori, legandosi allo stesso tempo a un personaggio dall’indiscusso estro creativo. Parallelamente, alla Universal Pictures, che nel 2020 ha acquistato i diritti di sfruttamento cinematografico del brand Lego (prima concessi alla Warner Bros), serviva un film per valorizzare i mattoncini.
Un documentario dall’approccio anticonvenzionale
Nel mezzo, tra Williams, Universal e Lego, un esperto di documentari, Morgan Neville: vincitore dell’Oscar per il miglior documentario nel 2013 con 20 Feet from Stardom, in cui racconta la vita delle coriste e dei cantanti d’accompagnamento che hanno lavorato all’ombra di alcune delle più grandi leggende musicali del XXI secolo, il regista americano si è cimentato per la prima volta con un film d’animazione, che dopo cinque anni di lavoro esce ora finalmente in sala: Piece by Piece. La scelta della produzione di affidarsi a un regista che ha dimestichezza con l’ambito musicale si rivela vincente almeno tanto quanto quella di utilizzare i Lego come forma di rappresentazione, un approccio non solo riuscito ma anche indispensabile.
Sin dai primi fotogrammi, infatti, quando è lo stesso Neville a intervistare Williams, entrambi già nelle vesti di personaggi Lego, è chiaro che l’approccio di questo documentario sarà anticonvenzionale: un continuo andirivieni tra presente e passato, una regia movimentata, metafore per spiegare stati d’animo e processi creativi rese magnificamente dalle combinazioni dei mattoncini Lego. La forma, insomma, prevale sin da subito sulla sostanza, e di parecchio. Il film parte quindi con il piede giusto e l’incanto visivo, un prisma coloratissimo e buffo, fantasioso e divertente, predispone lo spettatore, grande o piccino, a un racconto piacevole. A questo si aggiunge una colonna sonora molto bella che sfrutta non solo celebri brani di Williams ma anche musiche che ripercorrono la crescita del protagonista.
Sotto i Lego, niente
È a questo punto che iniziano i problemi del film, o meglio, che si rivela la sua doppia natura. Da un lato c’è una bella storia di formazione, quella di un ragazzo che attraversa, come tutti, varie fasi della vita, trovandosi dinanzi a bivi importanti, rifiuti, momenti di sconforto e altri di eccessiva fiducia in se stesso. È un percorso di formazione in cui moltissimi, soprattutto giovani, possono immedesimarsi, apprezzandone diversi messaggi importanti, dal valorizzare la propria unicità che anziché limite è ricchezza al rialzarsi dopo una caduta, dal credere in se stessi al relativizzare la propria importanza nel mondo (pertinente e molto apprezzata, in tal senso, la citazione a “Pale Blue Dot”, la fotografia scattata alla Terra dalla sonda Voyager1 nel 1991, mentre si trovava a sei miliardi di chilometri di distanza dal pianeta… ). I Lego e la messa in scena scanzonata e brillante, da questo punto di vista, rafforzano il messaggio e lo rendono digeribile a un pubblico molto trasversale che uscirà dalla sala felice e anche un po’ commosso.
Dall’altro lato, però, questo aspetto così riuscito di Piece by Piece è anche il suo maggior limite. Le tante invenzioni visive e i tanti riferimenti alla cultura nerd (da Star Trek a E.T.) sovrastano del tutto il fatto che il film sia in realtà un documentario su Pharrel Williams. Un documentario che, se privato della sua forma, rivela poca sostanza. La mancanza più vistosa è quella dell’obiettività: Pharrel Williams viene presentato come artista brillante con pochi difetti, tutti edulcorati, e molti pregi. Tra elissi un po’ deliranti e naive del musicista e una narrazione a tratti sincopata e/o noiosa, con interviste sapientemente spezzettate e dosate, si percepisce che il ritratto che va emergendo non è né esaustivo né del tutto veritiero. A quel punto lo spettatore mediamente accorto capirà che, tolti i Lego e la bravura dei reparti tecnici e del regista nel movimentare le vicende e il materiale raccolto, ciò che resta è un documentario dai contenuti tradizionali e piuttosto autocelebrativi.