Petite Maman è il nuovo film diretto dalla regista Céline Sciamma, che aveva già “infiammato” i cuori dei cinefili con il suo precedente film Ritratto della giovane in fiamme (e con il suo secondo lungometraggio, Tomboy), descrivendo sempre ritratti femminili complessi e articolati che incarnano un vero e proprio viaggio tra le pieghe del femminino. Il film, dopo un passaggio accolto con successo durante lo scorso Festival Internazionale del Cinema di Berlino nel 2021, è stato presentato nel concorso ufficiale della sezione Alice nella Città durante la sedicesima edizione della Festa del Cinema di Roma, prima di arrivare nelle sale italiane dal 21 ottobre grazie a Teodora Film e MUBI.
Il film è incentrato su Nelly, una bambina di 8 anni, che aiuta i genitori a sistemare e ripulire l’abitazione della nonna, morta da poco lasciando un grandissimo vuoto in sua madre. E la casa è proprio la stessa in cui quest’ultima, Marion, è cresciuta e ha trascorso l’infanzia. Così, mentre Nelly inizia a esplorarla, spingendosi fino ai boschi che la circondano, inizia a curiosare tra i luoghi dove Marion era solita giocare quando aveva la sua età, come la capanna di legno di cui la madre le ha tanto parlato. Ma quando la donna è costretta ad allontanarsi dalla casa, lasciando lì la figlioletta e il padre, la bambina si imbatte in una sua coetanea durante una delle sue esplorazioni… una bambina che, casualmente, ha lo stesso nome di sua madre e che, proprio come lei molti anni prima, è impegnata a costruire una capanna di legno nel bosco.
Petite Maman è un piccolo film intimo ed esistenziale, che sfrutta la delicatezza del linguaggio cinematografico indie – e d’autore – per raccontare una tenera storia di madri e figlie, ma soprattutto un’avventura generazionale con protagoniste le donne, le cui emozioni sono messe al centro di un viaggio fin nel cuore di un tempo capace di attorcigliarsi su se stesso, in un eterno ritorno dell’uguale. C’è filosofia e sentimento dietro lo sguardo della macchina da presa di Céline Sciamma: come aveva già fatto nei suoi precedenti film, la regista indaga l’insondabile che spesso non si affaccia alla realtà, quella sfera dei sentimenti che divorano e sconvolgono, consolano e pacificano. Ma se nel Ritratto della giovane in fiamme le protagoniste erano due giovani donne adulte alle prese con la loro bruciante passione e le rigide regole sociali, in Petite Maman al centro della vicenda ci sono due “piccole donne”, distanti (e distinte) nello spazio e nel tempo.
E proprio quest’ultima coordinata – il tempo – viene piegata, ri-piegata, ri-avvolta e infine srotolata dalla Sciamma fino a far coincidere due punti nello spazio-tempo paralleli come due rette e destinati a non incontrarsi mai. Nelly non capisce le motivazioni che spingono sua madre, Marion, a comportarsi in un certo modo dopo la scomparsa della nonna (che aveva lo stesso nome della nipote); ma solo il suo incontro con la “petite” Marion, suo riflesso speculare, le permette di colmare quel vuoto affettivo che prova, riuscendo a decifrare quella complessa rete di sentimenti ed emozioni travolgenti. E la figura della nonna, scomparsa nel presente, ricompare come un consolante angelo lungo la strada capace di conciliare una pace a lungo cercata, ma sempre più sfumata dopo la sua scomparsa. La narrazione di Petite Maman è costruita sul concetto del doppio, del riflesso speculare che si immerge nelle acque cristalline del tempo: Le due Nelly e le due Marion sono frammenti, schegge di un passato che si conficcano nel flusso del presente, deviandolo.
Alla base di Petite Maman c’è, senza dubbio, un’idea originale che sovverte la tradizionale drammaturgia che ci si aspetta da un film dal gusto “indie”: l’inizio drammatico sfocia in una sospensione dell’incredulità fantasy che coinvolge lo spettatore e lo spinge a curiosare tra le pieghe della storia, assorbito da ciò che potrà accadere ai personaggi (pur conoscendo già l’esito degli eventi, proiettati nel presente/futuro). Forse il linguaggio timido della macchina da presa, così intimo e personale, non rende nel migliore dei modi la potenza dirompente del tema del film, ma anche questa grammatica è finalizzata ad esprimere – nel migliore dei modi – l’argomento che è dietro il progetto: ovvero la volontà di mostrare il rapporto madre-figlia come un flusso unico, cristallizzato nel tempo e a prescindere da quest’ultimo, immortalato in un dialogo continuo capace di infrangere anche i limiti della fisica, giocando con le corde emotive del cuore e del sentimento.