Papillon è il film diretto da Michael Noer che riporta in auge, a distanza di quarantacinque anni, il mito del film omonimo originale – anch’esso ispirato alle memorie dello scrittore francese Henri Charrière – che vedeva protagonista la coppia d’oro della New Hollywood costituita da Steve McQueen e Dustin Hoffman.
Nella nuova versione, a sostituire il “divo spericolato” per eccellenza troviamo l’inglese Charlie Hunnam (lanciato nell’empireo grazie alla serie Sons of Anarchy), mentre nei panni dell’occhialuto Hoffman troviamo il camaleontico attore statunitense ma con origini egiziane Rami Malek (a sua volta consacrato dal piccolo schermo attraverso la premiatissima serie Mr. Robot).
Dall’originale Franklin Schaffner il timone di regia passa invece al danese Noer, qui al suo debutto in un film hollywoodiano, dopo svariate esperienze nell’ambito dei documentari e dei cortometraggi, almeno fino al suo primo film R (2010), un dramma carcerario preludio – forse – al moderno remake.
Papillon (qui il trailer ufficiale italiano) segue l’epica storia di Henri “Papillon” Charrière (Hunnam), uno scassinatore della malavita parigina degli anni ’30 che viene incastrato per un omicidio – che non ha commesso – e condannato a scontare l’ergastolo nella terribile colonia penale dell’Isola del Diavolo, nella Guyana Francese. Determinato a riconquistare la libertà ad ogni costo attraverso la via dell’evasione, Papillon stringe un’improbabile alleanza con l’eccentrico – quanto ricco – falsario Louis Dega (Malek) che, in cambio di protezione, gli offre i propri soldi per finanziare ogni tentativo di fuga, instaurando in tal modo un legame d’amicizia via via sempre più stretto.
Per parlare del nuovo Papillon è necessaria una breve premessa: è impossibile confrontare i due lungometraggi omonimi. Per quanto la nuova versione sia un remake dell’originale, il pur minimo paragone con il gemello del 1973 farebbe crollare le certezze del valido film di Noer.
Papillon recensione del film con Charlie Hunnam e Rami Malek
Riportare in vita, nel 2018, la storia di vite spezzate, prigioni e agognata libertà raccontata da Charrière nel proprio memoir è un azzardo rischioso ma anche, allo stesso tempo, un tentativo coraggioso: da un lato si rischia di realizzare semplicemente un prison movie retorico e privo di un’anima indomita e ribelle; dall’altro, però, Noer si abroga anche il diritto di puntare nuovamente gli occhi del mondo su un dramma quanto mai moderno, quello della condizione delle carceri.
La versione di Noer è intensa e incalzante: la regia è solida, a tratti didattica – assumendo le fattezze di un documentario piuttosto che di un biopic – ma comunque scorrevole e salda; una scelta felice è quella legata al casting del film, che si fregia non solo di ottimi caratteristi – dai volti giusti e dalle apparizioni memorabili – ma soprattutto di due protagonisti che non fanno rimpiangere, straordinariamente, gli originali.
Reggere il confronto con la coppia McQueen-Hoffman sembrava impossibile o comunque un’impresa ardua, ma Hunnam e Malek emergono egregiamente, epigoni indipendenti capaci di ricordare, evocare ed imitare i loro modelli di partenza prendendone però pian piano le distanze, finendo per imporsi nella memoria visiva degli spettatori.
Papillon è un buon prison movie incentrato sull’eterno tema della fuga ad ogni costo: la libertà è il motore immobile, il fine ultimo che giustifica ogni mezzo lecito o illecito. E in questa costante ricerca escapologica, gli esseri umani – imprigionati e privati del loro scopo – non perdono però mai di vista la dignità, trovando come unico conforto un’inossidabile fratellanza, più forte di qualunque costrizione o punizione.
Un film che instilla il guizzo malinconico della riflessione, ma che necessita della libertà – restando in tema – d’interpretazione, svincolato da un originale ingombrante, figlio dei propri tempi (gli anni ’70 della contestazione e del cambiamento) e forte del proprio volto simbolo: quello di Steve McQueen, mito e icona di un’intera epoca.