Una volta lo chiamavano cinema d’impegno civile. Si tratta di un genere a cui appartengono quei film che, ispirandosi a fatti realmente accaduti (solitamente scandali, intrighi politici, truffe, ecc.), sono capaci di scuotere le coscienze anche della “maggioranza silenziosa” degli spettatori cinematografici. Appartiene sicuramente a questo filone il film Panama Papers, ultima fatica dell’eclettico Steven Soderbergh, regista che ha fatto della sperimentazione – estetico/visiva e narrativa – una delle qualità principali del suo cinema.
Tratto dal libro-inchiesta del giornalista Premio Pulitzer Jake Bernstein, Secrecy World: Inside the Panama Papers Investigation of Illicit Money Networks and the Global Elite, il film si basa su uno scandalo (naturalmente reale) che è balzato agli onori della cronaca non molti anni fa. Per chi avesse la memoria corta o un amnesia temporanea, l’affaire denominato “Panama Papers” venne denunciato sulle colonne di alcuni dei maggiori quotidiani internazionali nel 2016 e riguardò una serie di documenti, redatti dalla società panamense Mossack Fonseca & C., che comprendeva i nomi di ben 25.000 imprese offshore con base nei principali paradisi fiscali del mondo (lo stesso Panama, le Isole Vergini Britanniche, la Svizzera, ecc.).
Fin qui nulla di strano, peccato che le imprese citate erano in realtà fittizie e servivano solo per dislocare all’estero ingenti somme di denaro che chiaramente non veniva tassato e fiscalmente risultava inesistente, oltre che per riciclare denaro sporco (da qui, il titolo originale del film The Laundromat, che letteralmente significa “Lavanderia a gettoni”). I documenti, che recavano informazioni raccolte tra il 1977 e il 2015, però, non si limitavano ad indicare nomi e sedi delle aziende, ma anche i loro proprietari – talvolta prestanome, talvolta persone comuni, ma anche uomini di stato e politici – e rappresentarono inoltre una delle più grandi fughe di notizie della storia del giornalismo di inchiesta (e questo, bene specificarlo per onor di cronaca, grazie a una gola profonda proveniente dalla stessa Mossack Fonseca & C.).
Per raccontare una delle più grandi frodi finanziare degli ultimi anni, Soderbergh sceglie di affidarsi a uno stile eterogeneo. Panama Papers è, in prima istanza, una commedia grottesca sulla falsariga di un film per certi versi analogo (in questo caso incentrato sulla crisi economica del 2008) La grande scommessa di Adam McKay. Ma non di rado il regista abbandona tale registro concedendosi scorribande in pieno realismo e usufruendo anche di soluzioni narrative tipiche del genere documentario: ad esempio, inserendo lungo il corso del film qualche inserzione che potremmo definire “didattica”, attraverso la quale spiegare allo spettatore (in modo didascalico ma efficace) alcuni aspetti legati alla complessa rete di imbrogli finanziari che hanno contraddistinto lo scandalo, nonché certi nebulosi processi che caratterizzano, in generale, il mondo della finanza, difficilmente descrivibili attraverso una narrazione di fiction convenzionale.
I diversi stili che contraddistinguono la pellicola si modellano quasi naturalmente a una narrazione complessa a più voci, contraddistinta da due linee narrative principali (parallele). La storia, infatti, è in parte raccontata in prima persona da quelli che potremmo definire i due Deus ex machina della vicenda, ovvero gli avvocati truffaldini Jürgen Mossack (Gary Oldman) e Ramón Fonseca (Antonio Banderas), che sovente abbattono la cosiddetta “quarta parete” per rivolgersi direttamente allo spettatore; mentre in parte riguarda le vicissitudini di chi ha subito o si è arricchito a causa/grazie della società panamense, come la vedova Ellen (Meryl Streep), che dopo l’incidente accorso al marito Joe (James Cromwell), scopre che l’agenzia assicurativa a cui spetterebbe il pagamento dell’indennizzo per l’incidente non solo non sborserà neppure un soldo, ma fisicamente non esiste (e naturalmente è tra quelle amministrate dalla società panamense).
Panama Papers è quindi sostanzialmente una black comedy che riesce sempre a mantenere il giusto equilibrio fra farsa e invettiva sociale. Affidandosi all’efficace sceneggiatura di Scott Z. Burns (già autore dello script dell’ottimo The Informant!), Soderbergh riesce benissimo a far sprofondare lo spettatore dentro una vicenda tanto complessa quando difficile da raccontare cinematograficamente; e lo fa affidandosi a due ciceroni – i personaggi di Mossack e Fonseca – che raccontano dall’interno la vicenda e tutti gli aspetti che la caratterizzano, guidando di fatto gli spettatori nell’intricato mondo della finanza… e delle truffe ad essa legate.
Ed è forse proprio quest’ultimo aspetto tra i più apprezzabili di Panama Papers. Il film, infatti, ha la capacità di non focalizzarsi esclusivamente sulla vicenda in sé, ma di allargare lo sguardo, mostrando lo scandalo del 2016 come una parte di un sistema malavitoso legato alla finanza i cui responsabili non sono tanto i vari Mossack e Fonseca di turno (che, oltretutto, dimostrano di aver sempre operato nell’alveo della legge, per quanto discutibile essa sia), ma tutti coloro che si sono serviti di loro per commettere frodi fiscali: non solo privati cittadini o uomini politici, ma il sistema capitalistico nella sua totalità (per la serie: il capitalismo genera mostri… e truffatori). Peccato soltanto che nella parte finale del film, forse sceneggiatore e regista si lascino andare a un cuop de théâtre (non faremo spoiler, tranquilli) che coincide con un’invettiva (in cui ci mette la faccia Meryl Streep, più come cittadina e “influencer” che come attrice) nei confronti degli Stati Uniti (chiaramente gli Stati Uniti di Donald Trump) che sembra uscita più da un film di Michael Moore che non da un’opera puramente di fiction.
Ma, nonostante ciò, Panama Papers è certamente un film da non perdere, impreziosito da un manipolo di attori di assoluto livello che, oltretutto, permettono allo spettatore di confrontarsi con stili di recitazione molto diversi tra loro (a seconda dei diversi registri presenti nel film). Si passa così dal modo gigionesco (e irresistibile!) in cui Oldman e Banderas impersonano i soci Mossack e Fonseca, allo straordinario realismo con cui Meryl Streep – sempre misurata, mai sopra le righe, e profondamente efficace -, tratteggia un personaggio comune vittima di un evento molto più grande lui.