Vediamo un po’… Da un lato si scorgono, pur con qualche forzatura, Carl Schmitt e le sue riflessioni su come la Politica travisi il senso autentico della Pace (“L’alternativa tra pace e guerra acquista un significato nuovo […]: diventa una mera finzione giuridica, sia che si assuma che tutto ciò che non è pace è guerra, sia al contrario che tutto ciò che non è guerra deve per questa ragione essere di per sé stesso pace”); dall’altro arrivano gli echi, inconfondibili, di Sotto il vulcano (le albe sanguigne, i crepuscoli che spingono nubi scure, gli arbusti lussureggianti, pacchiani motivi floreali su camicie e bermuda, corpi di ragazze e ragazzi madidi, “mascherati”, persi in balli macabri, teatralmente ripetitivi, ormai monchi del loro valore rituale) con la differenza che non ci troviamo più a Cuernavaca, come nel romanzo (’47) di Malcom Lowry, bensì in un’imprecisata isola della Polinesia Francese.
In mezzo a tutto ciò prende forma Pacifiction – Tourment sur les îles, da oggi nelle sale italiane, che fin dal titolo (mordace impasto di fiction e pacification, come dire “la guerra è elemento imprescindibile: una condizione umana vissuta in eterna pace, è pura utopia”) “ancheggia” cinico davanti a un pubblico impotente e complice ad un tempo. Bizzarro film, l’ottavo di Albert Serra. In quasi tre ore di proiezione accade ben poco nondimeno, un passaggio dopo l’altro, si è catturati, l’esito convince e, se l’attenzione ai dettagli rimarrà desta fino all’ultimo, riuscirà per vie inspiegabili a turbare nell’intimo, cosa che raramente avviene con le opere (si recuperi, ad esempio, Liberté) del cineasta catalano: ambiziose, è innegabile, molto curate (sul versante sonoro prima ancora che figurativo), sempre compiaciute, insistite e fredde; tre aggettivi che si addicono a Pacifiction ma, come accennato, il gioco stavolta vale la candela.
Il Café di Morton (Sergi López) è assai rinomato, dentro e fuori dell’isola. Tutti ci vanno, comprese celebri scrittrici come Romane (Cécile Guilbert). Tutti ne invidiano gli aitanti camerieri seminudi e le danzatrici indigene, che paiono uscire dalle tele di Gauguin. Nella penombra del locale ciascuno confabula, vende, compra, si vanta di costruire principeschi casinò, poco importa se gli edifici sorgeranno su dei “marae”, luoghi sacri dove si rispettano gli antenati, dove i vivi onorano i morti. Sesso, cibo, vini drogati, antichi combattimenti fra galli e lenti, narcotici colpi di tamburo non bastano a far dimenticare le malefatte europee: i test atomici in atmosfera che, tra il ‘66 e il ‘96, stuprarono gli atolli di Aopuni e Fangatafoa lasciano ancora oggi una lunga scia di lutti e gravi carenze immunitarie. È davvero tutto alle spalle? Si profilano all’orizzonte nuovi, turpi esperimenti? Matahi (Matahi Pambrun) ha paura, e con buona ragione, perciò non dà tregua a De Roller (Benoît Magimel), faccendiere e sedicente portavoce della commissione parlamentare francese d’inchiesta sull’energia nucleare.
Costui parla, minimizza, imbonisce. Ostenta preoccupazione per i nativi e, come l’Astrov di Zio Vanja («Capirei se al posto di quei boschi devastati avessero tracciato strade, ferrovie, se fossero sorte officine, fabbriche…il popolo sarebbe diventato più ricco, più sano, più intelligente ma qui non c’è niente di tutto questo! Nel nostro distretto sono rimaste le stesse paludi, le stesse zanzare, le stesse strade impraticabili, la miseria, il tifo, la difterite, gli incendi…»), severità verso i connazionali ma, al confronto con il medico del dramma cechoviano, l’integrità del nostro non è più grande di un granello di polvere.
Nessuno gli crede più, altri vorrebbero fargli la pelle, solo Shannah (Pahoa Mahagafanau), drag queen senza macchia (sente la sua terra come la vera dimora di Gesù), più fragile di quanto sembri, non ha il cuore di abbandonarlo, sperando magari che un giorno De Roller si rapporti a lei con maggior tatto e la smetta di considerarla un lascivo “ariete” per espugnare l’ingresso di vantaggiose, altolocate conoscenze. Intanto un sommergibile atomico naviga in superficie, al largo della costa, con il “proiettile” già in canna e all’Ammiraglio (Marc Susini) manca sensibilmente qualche venerdì…
Turbare nell’intimo per vie inspiegabili…
Firmato dal regista insieme a Baptiste Pinteaux, il copione di Pacifiction (in origine doveva chiamarsi Bora Bora, come un film di Ugo Liberatore) maneggia un materiale di per sé basso, “pulp” (è stato citato Lowry ma potrebbero tornare alla mente anche certe crime stories di Leslie Waller), assumendo a poco a poco (qui sta il motivo d’interesse dell’opera) le sembianze di una “favola”, sottilmente morbosa, sulla fine delle illusioni, dell’autorevolezza culturale e politica del Vecchio Continente, forse del mondo intero, ridotto a nugolo di pesci in un acquario stagnante, catatonica folla di vinti e dementi che accoglie in bocca pioggia acida come il fiotto di seme dell’amante, folleggiando a piedi scalzi sul ciglio di un vulcano («L’esplosione e poi / dolce, dolce / un’abbronzatura atomica, / tra la musica / dolce, dolce / tutto andava giù…» cantavano i Gruppo Italiano).
Le ambientazioni di Sebastián Vogler (Singolarità di una ragazza bionda) e le luci di Artur Tort, fido collaboratore di Serra, riescono, poi, in modo del tutto inatteso, a far “incontrare” sul grande schermo le più squallide fantasie esotiche da poster in vendita all’autogrill con la drammaticità dei colori di Emil Nolde (1867-1956), nello specifico quei rossi cinabro, gialli, verdi smeraldo, infinite e cangianti gradazioni di grigio con i quali l’artista tedesco immortalò il proprio viaggio (1913-1914) nei Mari del Sud, l’ennesimo alla volta di un Paradiso Perduto, probabilmente mai esisto. Sotto il segno di Éliane Radigue e Thomas Köner, sembra, invece, procedere la partitura “dark ambient” di Joe Robinson e Marc Verdaguer.
Per un confronto, si consigliano La folie Almayer (2011) di Chantal Akerman e il classico Fratello mare (‘75) di Folco Quilici al quale è impossibile non pensare per la risposta che l’anziano pescatore del prologo dà, dopo aver visto in tv uno spot menzognero: «Lo so, le ragazze sono belle e ai forestieri piacciono molto… le nostre isole. E le isole sono belle, come le ragazze. Ancora. Ma chi è nato nell’antica Polinesia e v’è cresciuto bambino, poi uomo, poi vecchio… oggi, qui, non è più a casa sua».