Per scavare nel cuore di tenebra di Nope, l’ultima fatica del geniale Jordan Peele (già autore premiato – con tanto di Premio Oscar – di Scappa – Get Out e di Noi), bisogna partire dalla matrice primaria e più evidente, quel titolo enigmatico che campeggia sui maxi cartelloni pubblicitari e sui poster del film.
Nello slang anglofono (soprattutto a stelle e strisce), Nope è l’esclamazione suprema per rifiutare un certo tipo di realtà proposta, un netto cambio di rotta rispetto ad uno status quo imperante; ma è, allo stesso tempo, anche l’esclamazione più comune quando si avvista qualcosa di creepy, di talmente inquietante ed inedito da terrorizzare lo spettatore. E in fin dei conti, entrambe queste sfumature, riassumono bene l’essenza stessa dell’ultimo film del cineasta americano, un’opera sospesa tra sci-fi e western, con un’inquietudine horror ad attraversarla dalla prima inquadratura fino ai titoli di coda?.
Nope, che arriverà nelle sale italiane dall’11 agosto, vede davanti la macchina da presa Daniel Kaluuya (Premio Oscar per Judas and the Black Messiah), a cui si uniscono Keke Palmer (Le ragazze di Wall Street – Hustlers) e il candidato all’Oscar Steven Yeun (Minari), tutti e tre pronti ad interpretare dei residenti che vivono in una solitaria gola nell’entroterra californiano; i primi due, OJ ed Emerald, sono due fratelli allevatori di cavalli da generazioni, mentre il terzo gestisce un pittoresco parco a tema western, dopo una fortunata carriera in tv da bambino. Ognuno di loro è, all’improvviso, testimone di una scoperta inquietante e agghiacciante che cambierà per sempre le loro vite, coinvolgendo in questa incredibile avventura anche nuovi amici – e potenziali alleati – incontrati lungo il percorso.
Con Nope, Jordan Peele riesce a ri-annodare insieme i fili del passato mainstream e di genere hollywoodiano, traghettando entrambi verso un futuro prossimo dove la sala, pur soffrendo, diventa però il luogo privilegiato dove assistere a tali visioni magniloquenti. Il film, girato in formato IMAX, restituisce allo spettatore il connubio mozzafiato tra natura e uomo, con quest’ultimo che finisce per sembrare un tassello infinitesimale nel complesso del vasto affresco dipinto dal creato: campi lunghi, lunghissimi, totali ed establishing shot cari al linguaggio del cinema western inscenano, sullo schermo, la rinascita di uno dei generi chiave della cinematografia statunitense, ripercorrendo a ritroso gli albori della settima arte stessa, citando Muybridge e le prime cronofotografie in movimento. Prendendo per mano il passato, il film di Peele riesce a rileggere i capisaldi di Hollywood fino a portarli nel cuore del XXI secolo, tra l’ossessione dei social e “dell’apparire, quindi sono”, nuovo motto odierno che distorce il cartesiano cogito, ergo sum adattandolo a guisa dei nuovi media.
Da Muybridge, passando per l’epopea western americana, il mito inquietante della frontiera e dell’apocalisse aleggia, catastrofica, sugli Stati Uniti trascinandoli in un eterno loop ininterrotto di conquista-distruzione-espansione-ricostruzione: Peele scava nelle radici più profonde dell’american dream (and myth), nell’epos più pop che ha nutrito le fantasie della fabbrica dei sogni fin dalle origini, mentre si radicalizzava nella cultura americana trasformandosi nel mezzo privilegiato per esprimere ed esorcizzare paure e ansie collettive di un intero popolo, trasformandole in una narrazione comunitaria e catartica.
In Nope gli spettatori sono di fronte ad uno specchio deformante – tipico del genere horror – capace di svelare le proprie oscure fragilità: siamo tutti ossessionati dall’apparire ad ogni costo, da una meta-narrazione spettacolare del dolore (e dell’orrore), novelli Kurtz, Aguirre o Faust ossessionati e sedotti dalla morte e dalla possibilità di cristallizzarla in un singolo istante. Questo incarna, ad esempio, il personaggio del direttore della fotografia Antlers Holst (interpretato da Michael Wincott), che infine cede al fascino letale (e mortifero) del pericolo in nome di un’ossessione e della capacità di fermarla in un attimo, impressionandola sulla pellicola.
Nope è un film di ossessioni e di sfide: la hybris che anima Holst – e che lo spinge a sfidare la morte – è simile a quella che anima il terzetto costituito da OJ, Emerald e Angel, ognuno mosso da motivazioni ben diverse ma pervasi dalla stessa finalità: consegnare all’immortalità delle immagini qualcosa di straordinario, un “bad miracle” – come si ripete nel film –, un atto insolito. Lo stesso a cui ha assistito l’ex bambino prodigio (e adesso ranchero di un parco a tema) Jupe, forse il personaggio che meglio incarna il dramma atavico della hybris che condanna e punisce per la propria arroganza, in questo caso per la folle volontà di assoggettare tutto ciò che è ferino, incontrollabile, pericoloso, alla volontà umana.
Jupe si macchia del peccato supremo, sfidare lo status quo (dal sapore quasi biblico); come punizione, una minaccia extra-terrestre piomba sulla gola di Agua Dulce dove vivono tutti i protagonisti, richiamando alla mente i versi biblici (appunto) che aprono il film, tra punizioni scagliate dall’alto e minacce inevitabili che colpiranno il genere umano. Un’umanità che, da animale più pericoloso sulla faccia della terra, si trasforma repentinamente in preda facile dopo aver abusato di un mondo finalmente pronto a ribellarsi, figlio di sfruttamenti intensivi e sconsiderati.
Ma Nope è anche un film che racconta il presente attraverso lo sguardo affilato dei generi, strizzando l’occhio a forme, modelli e canoni che rispecchiano le convenzioni del cinema sci-fi e del western: dal primo, Peele riprende un gusto estetico per la fantascienza anni ’50, per quell’idea vintage della minaccia spaziale pronta ad insidiare la terra; pur essendo lontano dall’universo spielberghiano per tematiche e suggestioni, dal regista americano riprende il piacere dello spettacolo, dell’intrattenimento mainstream sul grande schermo che sollazza il piacere retinico degli spettatori, edificando un’esperienza collettiva (di sala) condivisa. Dal secondo, dal western, Peele riprende invece inquadrature e archetipi, con i personaggi pronti a seguire uno script più che classico nello stile e nella struttura, ma sorprendente – e post-moderno – negli effetti e nei risultati finali.
Ed è così che Nope si conquista, a pieno titolo, l’etichetta di opera pulp che aggiorna i generi maneggiandoli con cura, senza mai dimenticare una narrazione lucida della realtà contingente che ci circonda, trascinando il pubblico in una visione che a prima vista può spiazzare e confondere, ma che dimostra la sua lucida intelligenza nella capacità di insidiarsi, progressivamente, sotto la pelle di chi guarda, costringendolo infine a puntare i propri occhi verso l’alto.