Tempi duri per i maestri. In Veloce come il vento, Annarella preferisce l’oblio delle siringhe ad un incarico all’asilo. Il prof. White, alias “Heisenberg”, di Breaking Bad ha meno tormenti: raffina e vende droga direttamente. Fern, ex insegnante di lettere, protagonista di Nomadland, evita tali pericoli ma non un posto di magazziniere per Amazon, l’unico trovato dopo la chiusura del grosso scatolificio in città. Ciò che il domani le riserva lo sa solo la strada, sua nuova casa.
Il film della pechinese Chloé Zhao, classe ’82, inscena questo, né più né meno: le peripezie di una canadese “figlia” della strada (Frances McDormand, corretta ma non memorabile), una moderna nomade che, insieme ad altri, solo in parte ha scelto di essere tale, dandosi regole precise e trovando nell’autocaravan e nel paesaggio rurale dei fidati “compagni di viaggio”. La nostra – Fern, appunto – insieme al primo lavoro perse il marito per un male incurabile; forse ritroverà l’amore a fianco di Dave (David Strathairn), nomade e “naufrago” del mondo come lei, o forse le sarà concesso di vedere un’ultima volta il defunto consorte, lungo la strada, se mai in essa, un giorno, si aprisse una fessura sull’Altrove, sull’Aldilà…
Vincitore del Leone d’oro alla 77esima Mostra del Cinema di Venezia, titolo ricorrente in vari pronostici per gli Oscar 2021: cos’ha determinato il buon successo di Nomadland? La sua critica alle aziende della new economy, al loro inesorabile articolarsi su scala globale fra licenziamenti e chiusure di vecchi esercizi? Purtroppo Chloé Zhao non è il Thomas Stuber de Un valzer tra gli scaffali e neppure la Debra Granik di Senza lasciare traccia: le sciagure della civiltà industriale vengono da Bob Wells (sé stesso), guida del “popolo errante”, razionalizzate con un comodo «Il Titanic sta affondando: il nostro compito è solo far scendere in mare ogni scialuppa, salvando il maggior numero possibile di persone»; il guaio è che l’alternativa nomade offerta non si realizza fuori dal Sistema ma sempre internamente ad esso. In breve, il mondo e i suoi vincoli, gettati fuori dalla portiera della roulotte, “rientrano” dal finestrino in forma di blackberries, profili digitali, tavole calde da asporto e drugstores le cui merci paiono quasi uscire da un set di tempere per bambini. C’è sempre, poi, un bastardino pronto a intenerire il pubblico col suo scodinzolio! No, la grande recessione (2007-2013) fornisce solamente un palinsesto per Nomadland: gli scopi della regista vanno cercati altrove.
Oggi il western langue: Hostiles lo fu soltanto per l’ambientazione. Manca, dunque, un genere “forte” nel cinema americano dove legge morale e dignità umana immancabilmente trionfino. È forse questo ciò che Chloé Zhao voleva e che, in parte, ottenne con il precedente The Rider? Dare nuova veste ai valori che fecero grandi le opere di Cruze, Wellman o Ford? In effetti, come afferma la stessa sorella di Fern, nei moderni nomadi c’è qualcosa dei pionieri di un tempo, sognanti la Terra Promessa e ospitati da una Natura fin troppo suggestivamente immortalata (le immagini sono di Joshua J. Richards). L’America ha perduto sé stessa e ora se ne pente: rivuole indietro i boschi di Fenimore Cooper, i “bianchi giardini” di Giovannino Semedimela, le ballate di Woody Guthrie. Già si intuiva da Song to Song di Malick…ma i sogni, lo sappiamo, muoiono all’alba e neppure quelli cantati da Guthrie sfuggivano, ancorché sinceri, al rancido sapore della Macchina (“Whatever you do, wherever you go/ Don’t lose your grip on life and that means/ Don’t let any earthy calamity knock your dream and your hoping machine”).
Nomadland cela, però, dell’altro e qui si scorge la sensibilità profondamente, inconfondibilmente cinese dell’autrice: la storia non è altro, in fondo, che la trasposizione nell’America profonda di due temi assai cari ai poeti della dinastia Tang, ossia il dolore della partenza e l’incognita del ritorno; si pensi a Tu Fu (“Odio le separazioni, sono uccelli spauriti che agitano il mio cuore”) o a Lǐ Shāngyǐn (“Mi chiedi del ritorno, ma non ne so ancora nulla”). Fern è oppressa dalle stesse loro pene eppure il suo viaggio, a poco a poco, muta sembiante e la strada non è più solo un luogo di passaggio nello Spazio ma anche nel Tempo. Forse un giorno, come scritto all’inizio, si aprirà un varco che ci consentirà di rivedere chi abbiamo amato e tragicamente perduto; forse l’Uomo è qualcosa di più di un segmento di carne e malanni che inizia dalla testa e termina ai piedi e la fede matrimoniale di Fern, attentamente conservata al dito, circolo amoroso senza fine né inizio, significa proprio questo. Gli spettatori, commossi, lo hanno capito.