domenica, Giugno 4, 2023
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Noi ce la siamo cavata, recensione del docufilm di Giuseppe Marco Albano

La recensione di Noi ce la siamo cavata, il docufilm di Giuseppe Marco Albano che racconta i bambini della 3B di Corzano a trent'anni dall'uscita di Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller.

Gli attori bambini esercitano sempre un fascino misterioso sullo spettatore. Al di là di un’evidente predisposizione naturale alla recitazione (che nella maggior parte dei casi, per questioni puramente anagrafiche, non è stata ancora plasmata da eventuali scuole, accademie o corsi di perfezionamento), ad incuriosire maggiormente nel vedere sullo schermo dei piccoli talenti in erba al fianco di veri e propri giganti del mondo del cinema è quasi sempre – a posteriori – l’idea di cosa sia avvenuto dopo nelle loro vite.

Per alcuni recitare in tenera età assume spesso i contorni di una vera e propria epiphany (per dirla alla Joyce), un bellissimo gioco che sembra destinato a non ripetersi, capitato nelle loro vite quasi per caso, ma che spesso li indirizza verso un cammino di crescita personale e professionale che li condurrà poi a diventare realmente degli attori a tutti gli effetti; per altri, invece, si tratta di una semplice once in a lifetime experience, quel bellissimo gioco menzionato prima a cui forse non si avrà mai più il piacere e la gioia di prendere parte (per mancanza di occasioni, forse di talento o semplicemente per scelta).

Tuttavia, al di là del percorso tracciato un po’ dal destino, un po’ dal libero arbitrio, l’esperienza su un set cinematografico rimane sempre un ricordo indelebile, che non ti abbandona mai, anche se quella finestra su un mondo tanto complesso quanto magico come quello del cinema rimane spalancata esclusivamente per un breve lasso di tempo. Lo sanno molto bene i ragazzi che, da piccoli, hanno avuto la fortuna di recitare in Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller, uno dei titoli più celebri della filmografia della grandissima regista e sceneggiatrice italiana, che nel corso degli anni – anche grazie ai numerosissimi passaggi televisivi – ha raggiunto lo status di vero e proprio cult movie.

A trent’anni dall’uscita del film (era il lontano 1992), il regista Giuseppe Marco Albano – autore di diversi cortometraggi, tra cui l’acclamato Thriller (vincitore del David di Donatello 2015 per il miglior cortometraggio italiano, e del lungometraggio del 2013 Una domenica notte) – decide di raccontare cosa è successo ai bambini della vivace e problematica 3B dell’istituto Edmondo De Amicis di Corzano, che per un errore burocratico si ritrovano ad avere come maestro – all’inizio di scuola, ma in seguito di vita – Marco Tullio Sperelli, interpretato dal compianto e indimenticato Paolo Villaggio.

Noi ce la siamo cavata – questo l’evocativo titolo del bellissimo docufilm di Albano – è stato presentato in anteprima alla scorsa edizione (la 40esima) del Torino Film Festival ed è uscito nelle sale lo scorso 5 gennaio grazie alla società di produzione e distribuzione Lo Scrittoio. Curiosamente, il progetto nasce da un’idea quantomeno folgorante dello stesso Albano, grande estimatore della pellicola originale della Wertmüller, e di uno dei piccoli -all’epoca – protagonisti del film, Adriano Pantaleo (interprete di Vincenzino): insieme, i due hanno dato vita alla sceneggiatura ricorrendo al prezioso contributo di Andrej Longo, che aveva già firmato lo script del film del ’92 (insieme a Leonardo Benvenuti e Piero de Bernardi, una delle coppie di autori di maggiore successo della commedia all’italiana, noti soprattutto per la saga di Fantozzi e per la trilogia di Amici miei).

La celebrazione di un passato individuale e collettivo

Per stessa ammissione di Pantaleo all’interno del docufilm, l’idea alla base di Noi ce la siamo cavata nasce da una domanda – legittima, considerato il posto speciale che il film occupata nel cuore di tantissime persone – che spesso gli rivolgono quando viene fermato per strada: che fine hanno fatto i tuoi “compagni di classe”, i bambini di Noi speriamo che me la cavo?

Così, alla guida di un pittoresco furgone giallo, Pantaleo – che esordì nel mondo del cinema proprio grazie a Io speriamo che me la cavo, all’età di 7 anni – decide di andare alla ricerca di quegli “amichetti d’infanzia” con i quali condivise quell’incredibile avventura: volti unici, ancora oggi riconoscibili, inspiegabilmente scolpiti nella memoria collettiva italiana, divenuti adesso dei ragguardevoli adulti riusciti a sopravvivere a quel successo travolgente che trent’anni fa cambiò per sempre le loro esistenze e che fece di quel piccolo gioiello della Wertmüller sul quale nessuno era pronto a scommettere un vero “caso cinematografico”, dimostrando tra alti e bassi di essere riusciti, tutto sommato, a cavarsela (come auspicato molti anni prima dal profetico titolo del film stesso).

Adriano Pantaleo – l’unico, insieme a Ciro Esposito (interprete di Raffaele), ad aver proseguito con la carriera di attore e ad essere attivo nel campo ancora oggi (di recente ha recitato ne La vita bugiarda degli adulti, tratto da Elena Ferrante e disponibile su Netflix) – ritrova così i suoi ex compagni di scuola, i suoi ex compagni di set, quei ragazzini dalle esistenze “sgarrupate” che sono riusciti a resistere alle difficoltà e alle intemperie della vita: insieme a Raffale, Vincenzino ritrova gli ormai adulti Totò (Luigi Lastorina), Nicola (Mario Bianco), Tommasina (Carmela Pecoraro), Salvatore (Salvatore Terracciano) e Lucietta (Annarita D’Auria), ma anche Peppiniello (Pierfrancesco Borruto), Rosinella (Marinella Esposito), Gennarino (Dario Esposito) e Giustino (Marco Troncone).

Guidati dalla figura di Adriano, gli ex allievi della 3B di Corzano rievocano, chi da lontano, chi da vicino (non tutti gli interpreti hanno partecipato fisicamente alla reunion che si vede nel docufilm, ma hanno contribuito attraverso delle interviste), un passato ricco di aneddoti divertenti e forse poco conosciuti anche da chi ricorda a memoria le battute di Io speriamo che me la cavo. Un viaggio a ritroso nel tempo attraverso ricordi oltremodo vividi, che investe tanto la sfera privata (quella di tutte le persone che furono coinvolte nel film) quanto la sfera pubblica (quella di tutti coloro che lo hanno amato e continuano ancora oggi ad amarlo).

Impreziosito dalle testimonianze degli “adulti” che collaborarono alla realizzazione del film originale – tra cui gli attori Isa Danieli, Gigio Morra e Paolo Bonacelli, ma anche il produttore Ciro Ippolito e persino la casting director Mariarosaria Caracciolo, insieme all’acting coach che si occupò di guidare i bambini nella recitazione -, Noi ce la siamo cavata si muove in equilibrio sul filo della nostalgia celebrando il ricordo e la memoria, senza mai cedere però alla rievocazione di un passato glorioso sterile e fine a se stessa: il lavoro di Albano è preciso, minuzioso (come dimostra l’inserimento dei tantissimi filmati d’epoca che mostrano il backstage del film), ma è l’intento nobile e sincero del regista a fare la differenza.

Attraverso le vite di quegli adulti che ai nostri occhi resteranno sempre dei bambini, in Noi ce la siamo cavata c’è spazio a sufficienza per celebrare tante storie diverse: storie di successo ma anche storie meno fortunate, di ascese e di cadute, ma anche di rinascite. Storie che riguardano chi siamo stati e soprattutto chi siamo diventati. In questo senso, Albano riannoda i fili di un passato individuale e collettivo e costruisce un racconto nuovo di zecca che guarda alla possibilità e alla capacità di proiettarsi verso il futuro senza mai dimenticare le sue radici profonde, che affondano in quella commedia dolceamara che trent’anni fa ha cambiato le esistenze di moltissime persone.

Oltre a tutto questo, Noi ce la siamo cavata è anche un omaggio estremamente sentito ad almeno tre figure fondamentali: Lina Wertmüller, la mente creativa, il vulcano di idee, la professionista intransigente ma anche la donna dal cuore grande, a cui il docufilm è dedicato e nel quale è presente la sua ultima apparizione in video (la regista è morta nel 2021, ma fortunatamente ha avuto modo di incontrare Albano e Pantaleo per dare la sua benedizione al progetto); Paolo Villaggio, l’uomo di spettacolo, il comico surreale e innovativo, l’attore desideroso di mettersi alla prova con ruoli più drammatici e di allontanarsi dall’ingombrante maschera di Fantozzi (come emerge dale interviste risalenti all’epoca della realizzazione film); la città di Napoli, lontana dagli stereotipi, dalle odierne rappresentazioni cinematografiche e televisive che restituiscono il ritratto di una terra desolata, di un luogo privo di speranza, più vicina sicuramente a quel “microcosmo nel macrocosmo” pieno zeppo di contraddizioni e assurdità, ma pur sempre vibrante e vitale, ottimista nonostante tutto, pronto ogni volta a rinascere dalle sue ceneri come la mitologica e immortale fenice.

Guarda il trailer ufficiale di Noi ce la siamo cavata

GIUDIZIO COMPLESSIVO

In Noi ce la siamo cavata c'è spazio a sufficienza per celebrare tante storie diverse: storie di successo ma anche storie meno fortunate, di ascese e di cadute, ma anche di rinascite. Storie che riguardano chi siamo stati e soprattutto chi siamo diventati. In questo senso, Giuseppe Marco Albano riannoda i fili di un passato individuale e collettivo e costruisce un racconto nuovo di zecca che guarda alla possibilità e alla capacità di proiettarsi verso il futuro senza mai dimenticare le sue radici profonde, che affondano in quella commedia dolceamara che trent'anni fa ha cambiato le esistenze di moltissime persone.
Stefano Terracina
Stefano Terracina
Cresciuto a pane, latte e Il Mago di Oz | Film del cuore: Titanic | Il più grande regista: Stanley Kubrick | Attore preferito: Michael Fassbender | La citazione più bella: "Io ho bisogno di credere che qualcosa di straordinario sia possibile." (A Beautiful Mind)

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