Due volte la “Kitchen Film” della torinese Emanuela Piovano (Amorfù) ci ha sorpreso, due volte ci ha toccato nell’intimo. Dopo il Giappone terragno e insieme “celestiale” di True mothers di Kawase Naomi, fra cirri, specchi lacustri, lame di sole pomeridiano e aironi in volo, ecco un altro dramma “senza tempo” nel quale conversazioni private, abbagli e soffocati dolori umani si intrecciano ai ritmi della Natura, “danzando”, trasfigurandosi reciprocamente, elevando quello che avrebbe potuto essere un comune incontro fra solitudini ad un’enigmatica, forse più alta dimensione. Laicissima eppure pudicamente sfiorata da un ineffabile misticismo, la pellicola in esame si intitola Nessuno deve sapere (L’ombre d’un mensonge, in originale; Nobody has to know per il mercato anglofono), porta la firma di Bouli Lanners (lo vedemmo, attore, in Cette musique ne joue pour personne, nei maneschi panni di Poussin) e, al pari del citato True mothers, vorremmo includerla fra le migliori dell’anno 2022, ormai giunto al termine.
La “signora di ghiaccio”: Millie MacPherson (Michelle Fairley) ha ricevuto dai compaesani un nomignolo che definire ingeneroso è poco. Rude padrone di un pascolo, suo padre Angus (Julian Glover) sembra non curarsene e qualche volta ha perfino preso parte, seppur nell’ombra, al becero “coro”. Brian (Andrew Still), il nipote, se ne rammarica: sa bene – e forse soltanto lui – che il cuore della zia non è indurito, solo “addormentato”. Non più giovane, certo, già “decorata” in volto da feroci, piccole rughe ma… l’azzurro profondo dei suoi occhi è lo stesso dell’Atlantico del Nord che, fragoroso, bagna l’isola di Lewis (Scozia), sfondo della storia. Occhi che osservano, dunque, che supplicano, da tempo segretamente rivolti a Phil (ancora Lanners), bracciante alle dipendenze di Angus, il cui passato resta per molti un’incognita. Una domenica mattina come tante, al termine della funzione religiosa, Phil cade svenuto in prossimità di una staccionata. Si risveglia. Ha perso completamente la memoria, non riconosce più chi lo circonda. Millie trova il coraggio di avvicinarsi all’uomo, di rivelargli che, prima dell’incidente, tra loro era sbocciato l’affetto. Dopo un’iniziale perplessità, Brian si abbandona totalmente al rapporto, alla nuova “tela” che il Fato sta intessendo per lui… Saranno, però, vere le parole di Millie?
Una fiaba sull’amore, ideale per un Natale “diverso”
Cosa definisce un’identità? La comunità d’appartenenza? Le gesta compiute? Le memorie, gli oggetti custoditi? Boris Wyszesławcew non ha dubbi: «L’autentica identità della persona è l’amore, senza l’amore la persona non vive ma muore. L’uomo “senza cuore” è un uomo vivo a metà». «Il cuore resta sempre qualcosa di più incomprensibile», prosegue il filosofo russo, «di più impenetrabile, misterioso, nascosto dell’anima, della coscienza, dello spirito. Esso è impenetrabile allo sguardo di un altro, ma – e ciò ci sorprende ancor più – anche al proprio sguardo. […] Esso è il centro misterioso dell’uomo; esso “tace” ma… proprio per questo vi si cela la bellezza incorruttibile dello spirito, la bellezza autentica». Più che con la conoscenza e con l’intelletto amiamo con il cuore: soltanto in questo amore è il pegno dell’immortalità. Perciò nessuno dovrà (o dovrebbe) mai sapere, sussurra il regista, affinché l’identità non assuma la «forma corrente», inautentica eppure da tutti accettata, «ombra vana» che corre ogni giorno il pericolo di venire calpestata per presunzione, ignoranza o capriccio. La più sublime promessa, il più sublime atto d’amore, fra Millie e Phil nel nostro caso, dovranno essere solo per i loro occhi e mani, le mani e gli occhi, cioè, di chi non si è trovato ma, da sempre, forse, “si è scelto”.
Queste riflessioni innervano il racconto del belga Lanners (anche sceneggiatore, insieme alla sunnominata Fairley e Stéphane Malandrin), alla quinta e più matura esperienza dietro la cinepresa, incarnandosi in silenzi, esitazioni, cenni, movenze. Un’atmosfera di ipnotica suggestione, oscillante fra morigeratezza protestante e timide nostalgie di nudità e innocenza antecedenti al Peccato Originale, si spande poi sulla superficie dell’opera, richiamando alla mente – grazie ai finissimi contributi di Paul Rouschop (La quinta stagione) e Frank van den Eeden (Girl), rispettivamente scenografo e direttore della fotografia – le tele del danese Carl Holsøe (1863-1935), i suoi interni severi, soffusamente illuminati, i legni e le suppellettili disposte con l’attenzione d’un miniaturista e ugualmente le vedute dell’americano Andrew Wyeth (1917-2009) dove immagini di pianori, fattorie, armenti e animali domestici assumono la valenza di “spiragli di pace”, schegge di un’Arcadia ritrovata, da troppo tempo coperta dall’oscurità (della quale rimangono ancora gelidi, tristi segni) perché nessun moderno invasore la violasse.
Lo “smemorato di Pabail Uarach” ribattezzerà qualche critico il corpulento, spaesato co-protagonista del film, altrimenti “Il fu Philippe Haubin”. Intellettualismi stanchi, pure pigrizie del “sentito dire”. Nessuno deve sapere è, sopra ogni altra cosa, una fiaba sull’amore, casta, genuina, che non mente sull’ingiustizia e la caducità della vita ma neppure riesce a tacere della sua inestimabile bellezza. Se è questo che state cercando, muovendovi a fatica nel ruffiano, assillante panorama delle feste natalizie, c’è un posto in sala, lasciato libero apposta per voi.