Un viaggiatore dello spazio-tempo attraversa il nostro sistema solare, fino ad approdare sulla terra. Un alieno, se non fosse identico – in tutto e per tutto – ad un essere umano, tanto nell’aspetto quanto nelle emozioni. Una fisicità vistosa, queer e androgina che spinge i curiosi a domandarsi: è un uomo? Una donna? Entrambi, o forse è molto di più? Di quale creatura dello spazio profondo stiamo parlando? Tutte domande plausibili che echeggiano tra le parole e le immagini psichedeliche di Moonage Daydream, il nuovo documentario che Brett Morgen ha scritto, diretto, prodotto ed editato e che si configura come un’emanazione stessa del pensiero di David Bowie, artistica eclettico – prima ancora che “semplice” rockstar iconica e planetaria – al quale è dedicata l’opera del cineasta americano, in uscita nelle sale IMAX in esclusiva dal 15 al 21 settembre, mentre approderà nei cinema a partire dal 26 dello stesso mese.
Moonage Daydream è un documentario che si trasforma presto in un biopic contaminato (sia nello stile che nella forma) e incentrato sulla figura mastodontica di David Bowie: artista e trasformista divenuto, nel corso degli anni, una vera e propria icona di stile quanto un simbolo indiscusso. L’opera esplora la vita e la carriera della rockstar attraverso le sue stesse parole, raccogliendo videointerviste e altro materiale – come i testi delle sue canzoni (che lo hanno raccontato molto bene) – mostrando la sua predisposizione alla sperimentazione e la costante ricerca identitaria. Il documentario ripercorre i mille volti di questo artista attraverso le sue molte maschere e le identità fluide, ponendo allo spettatore una domanda fondamentale: chi era davvero David Bowie? Di sicuro, un personaggio poliedrico e sempre in divenire, pronto a sperimentare nuove sonorità e stili e sempre in grado di affascinare in modo trasversale il pubblico di ogni generazione.
Quando Bowie approdò per la prima volta sotto le luci dei riflettori, negli anni ’60, non fu benedetto subito da un successo folgorante: forse mancava ancora qualche coraggioso passaggio perché la sua stella iniziasse a brillare in modo deflagrante, come una Supernova in esplosione. David Jones da Brixton, un sobborgo di Londra, doveva all’improvviso smettere di essere se stesso, rielaborare tutti gli stimoli che aveva assorbito – e rubato – dagli altri per creare qualcosa di completamente diverso, di “altro” da sé, una creatura aliena proveniente da uno spazio lontano e remoto. Doveva liberarsi di quella maschera per entrare nei panni di qualcun altro e iniziare una lunga catena di trasformazioni dentro e fuori da se stesso, tra travestimenti, personaggi ed eccentriche dichiarazioni; Ziggy Stardust, Aladdin Sane, il Duca Bianco… un lungo percorso camaleontico, fino ad approdare all’ultima incarnazione, quella definitiva: semplicemente, David Bowie.
Partendo da queste premesse eziologiche, Morgen “confeziona” (come un bravo artigiano) un’opera che ripercorre la fenomenologia creativa, sospesa tra pubblico e privato, di Bowie liberandosi dei canoni autocelebrativi tipici del biopic, del film musicale o del documentario pronto a trasformarsi in un “santino laico”: non è l’occhio della macchina da presa ad influenzare le immagini, suggestionando la narrazione e manipolando lo storytelling; è Bowie/Jones a raccontare Bowie il trasformista, il camaleonte con la passione per il collezionismo “umano” di volti, emozioni, attimi e frammenti. Il prodotto finale che lo spettatore potrà ammirare sullo schermo è un viaggio onirico e psichedelico, spiazzante e seducente, profondo come l’insondabile complessità della mente (e dell’animo) dello stesso artista.
Un documentario travolgente e magniloquente
Aprendosi con una citazione apparentemente filosofica che scomoda e confuta Nietzsche (ma che in realtà appartiene allo stesso Bowie), Moonage Daydream trascina fin da subito il pubblico in un vertiginoso caleidoscopio di parole e immagini: frammentando il pensiero, sposa la lezione della tecnica del Cut-Up tanto amata da William S. Burroughs e dalla Beat Generation – e cara alla stessa rockstar – per restituire una narrazione apparentemente sincopata, rapsodica e post-moderna, che procede sullo schermo grazie ad una libera associazione di immagini ed idee. Ma au contraire, sono le parole dello stesso musicista a raccontare – meglio di qualunque contributo esterno – se stesso e la sua arte, senza nascondersi agli occhi (e alle orecchie) indiscreti dell’incauto spettatore, voyeur privilegiato di questo folle viaggio tra immagini, logoi e musica.
Moonage Daydream è la dimostrazione concreta che il documentario può trasformarsi in un’arte, raffinata e sperimentale come il collage o la tecnica del Cut-Up, capace di associare liberamente suggestioni audio-visive talmente forti da sopraffare i sensi fino a scuoterli, anestetizzarli, risvegliarli e infine sedurli in un’esperienza immersiva e totalizzante, che nello specifico si configura come una cavalcata selvaggia nella mente (e nel cuore) di David Bowie, indubbiamente una delle icone incontraste e più eclettiche del XX Secolo. Un artista avvolto nelle proprie fragilità, smarrito in una stanza degli specchi tra mille maschere e travestimenti destinati a sviare l’attenzione del suo stesso pubblico dall’essenza, dal cuore pulsante che batteva dietro il trucco, l’inventiva, l’estro creativo e gli atteggiamenti affascinanti: ed è così che l’atavico senso di solitudine lascia spazio, nel corso del racconto per immagini, a riflessioni più profonde sull’inadeguatezza, sull’incapacità (e la paura) di amare, sul terrore di poter essere malati e quindi “prigioniero” degli scherzi della propria, fragile, mente.
Moonage Daydream cerca di svelare, nonostante la sua inafferrabile complessità, l’icona dietro la maschera, e ci riesce meglio di qualunque biopic spurio dedicato a Bowie (come accadeva con Stardust, che vedeva protagonista Johnny Flynn); il risultato finale è travolgente e magniloquente, con le videointerviste all’artista, i frammenti del suo privato, le foto, le riprese dei live e le immagini dei film da lui interpretati che si mescolano a istantanee brevi e pop (art) dei grandi capolavori del cinema muto, tra il Nosferatu di Murnau e Metropolis di Fritz Lang; su quest’ultimi, si innestano brevi istanti di infinito, immagini rarefatte dell’universo profondo, paesaggi lunari e colori pulsanti che richiamano la psichedelia quanto le forme uniche che si agitano nella continuità dello spazio stesso. La sensazione, davanti a questo spettacolo, è che David Bowie non sia morto il 10 gennaio 2016 ma che, proprio come l’energia, si sia trasformato in qualcosa di diverso e che adesso stia fluttuando altrove per continuare a narrarci la nostra stessa storia, proprio come il riflesso in uno specchio.