Midsommar – Il villaggio dei dannati è l’affascinante titolo del nuovo, atteso, film del regista Ari Aster, che aveva già messo in luce il proprio talento visionario e orrorifico grazie al proprio esordio con Hereditary – Le Radici del Male. Per raccontare questo nuovo incubo Aster torna nei luoghi svedesi che più gli sono affini, attingendo a piene mani dalla tradizione folk e dalla sottile vena macabra che da sempre caratterizza le leggende popolari scandinave.
Christian (interpretato da Jack Reynor) e Dani (interpretata da Florence Pugh) sono una coppia alla deriva, tenuta insieme solo dai reciproci sensi di colpa e dal dolore che ha seguito un grave lutto che ha distrutto la famiglia di Dani. Quando un loro amico li invita a passare un mese nel proprio villaggio della Svezia rurale, dove ha luogo ogni anno un importante festival di mezza estate che si ripete ciclicamente ogni 90 anni, i due – anche se reticenti – accettano. Ciò che ignorano è che ben presto la vacanza si trasformerà in un vero incubo ad occhi aperti…
Midsommar (qui il trailer italiano ufficiale) è, letteralmente, un incubo di una notte di mezza estate: solo che il ciclo abituale della notte e del giorno, nel nord Europa, segua altre logiche, regalando così quello che sembra un eterno periodo di sole accecante, avvolgendo perfino l’orrore della scintillante – quanto fredda – luce del mattino. Proprio quando la stella raggiunge il proprio acme, anche la crudeltà celata dietro i sorrisi candidi e la gentilezza sembra intensificarsi, perdendo i propri freni inibitori, senza però mai abbandonarsi al puro orrore, restando in bilico in un inquietante (e ancor più disturbante) limbo di grottesco quotidiano.
Aster riconferma il proprio talento da cineasta del nuovo millennio realizzando un film personale e sconvolgente, concepito piuttosto come una “favola macabra” tipica dei cicli nordeuropei: non un horror tradizionale, dunque, ma una sorta di “esperimento”, visivo ed emotivo, per affrontare – a colpi di metafore e allegorie – aspetti come la coppia, il tradimento, le tradizioni famigliari, l’elaborazione del lutto, la separazione ma soprattutto l’emancipazione della donna.
La struttura di Midsommar può essere analizzata attraverso il tradizionale schema della fiaba di Propp, configurandosi come una sorta di brutale rituale di passaggio per la consapevolezza della principessa di turno (in questo caso, la protagonista Dani): nel corso della macabra avventura la donna cresce, impara a rielaborare i propri traumi, si emancipa dalla figura maschile dalla quale dipende a causa delle sofferte esperienze del passato. L’orrore che serpeggia nel villaggio in realtà tocca tutti eccetto lei, che sembra invece crescere in questa situazione, traendone vantaggi e insegnamenti.
La regia di Aster, visionaria e rarefatta, volteggia – letteralmente – e si esibisce in ardite figure che catturano tanto l’emotività quanto i processi psichici di Dani: dallo smarrimento passando per lo stato allucinatorio, il regista non esita a mostrare la lucidità del proprio sguardo meccanico tramite sperimentali campi e controcampi allo specchio, e non lesina mai quando si tratta di mostrare dettagli macabri che accelerano il ritmo del racconto, altresì lento e progressivo come l’incedere stesso delle stagioni.
E in Midsommar l’unico vero neo è una questione proprio di ritmo: la lentezza che accompagna la narrazione permette allo spettatore di focalizzarsi meglio sul racconto (già di per sé privo di clamorosi jumpscare) ma, allo stesso tempo, rischia in diversi momenti di sfilacciarne la trama elegante ma fragile, suscitando oltretutto delle risate (volontarie) che Aster deve aver considerato in partenza, facendo virare quindi il film dai toni tipici dell’horror a quelli del grottesco quotidiano, dove i protagonisti si muovono come immersi nella dimensione dell’incubo.
E proprio questa è la chiave di lettura per decifrare l’insondabile eleganza del lavoro di Aster: tra echi pasoliniani e strizzando ai film di genere – come non pensare a The Wicker Man? – Midsommar è un viaggio allucinato nel cuore dell’incubo, dove la realtà si trasforma ancora una volta in macroscopico perturbante freudiano permettendo, all’orrore quotidiano insito in ognuno di noi, di fluire liberamente all’esterno, benedetto dalla luce del sole e solo per pochi giorni all’anno, come in un rito di passaggio ancestrale che tanto ricorda quelli compiuti nell’antichità dai bambini per entrare nell’età adulta.