Quando ne ha voglia il Passato torna a trovarci, sfondando la porta. Non sappiamo dove ci porterà… possiamo solo sperare che sia un luogo caro, in cui riponemmo una parte, una forza, un colore fondamentali del nostro essere… un luogo che a malincuore cercammo di lasciare nell’oscurità ma che non possiamo più ignorare. Tocca stavolta a Maïa (Rim Turki), araba da anni residente a Parigi, affrontare l’irruenta “visita” che, per l’occasione, ha assunto le forme di un voluminoso, pesante involucro di cartone (la Memory Box del titolo) che il corriere, un bianco mattino di fine dicembre, consegna in sua assenza. Saranno l’anziana madre, Téta (Clémence Sabbagh), e Alex (Paloma Vauthier), la figlia adolescente, a riceverlo.
Leggendo il nome del mittente, Téta trema al pensiero del contenuto: frena la curiosità della nipote, supplicandola di nascondere subito l’oggetto in cantina, senza dir nulla a Maïa, almeno non durante la cena di Natale, da lei preparata con gran cura. Alex non capisce. Squarciatosi rumorosamente per la pressione, il misterioso pacco rovina comunque la serata. Maïa e nonna Téta discutono: a malapena trattengono rabbia e lacrime. Liza Haber, così si chiama la mittente, è venuta a mancare lo scorso novembre. Téta lo sapeva e non ha aperto bocca. Perché? Chi era Liza? Cos’ha significato nella vita della mamma, assente spesso per lavoro, fredda e schiva? Alex continua a non capire. Esplorando, tuttavia, quegli astucci, matrici di biglietti per concerti, album di foto, piccoli diari, schizzi e musicassette, tutti sparpagliati sul pavimento dell’interrato, la giovane ricomporrà, come in un mosaico, passo dopo passo, la persona che fu Maïa alla sua età (Manal Issa), quando le finestre di Beirut Ovest, nel luglio dell’82, non tremarono soltanto per i cingolati israeliani ma pure per un breve boato di gioia nell’attimo in cui Paolo Rossi segnò il gol di vittoria sul Brasile; quando dal walkman le note di “Fade to gray” lusingavano con carezze di plastica e, per contro, i Kansas sussurravano che siamo meno che sabbia, crusca soffiata dal vento; quando il primo bacio lo si riceveva da un vero innamorato mentre l’illusione di cambiare il mondo bruciava in una sola notte, con un colpo di pistola, e Phoenix (Jessica Harper), persa fra le ombre del “Paradise”, obbediva ad uno sfigurato Angelo della Musica…
Dopo Flee l’area mediorientale del secondo Novecento torna a farsi “carne” e bromuro d’argento, parlando nuovamente allo spettatore di purezza perduta, utopie rimaste lettera morta, insanabili ferite generazionali («Si vede che non ti è mai mancata l’acqua» fa notare Téta alla nipote, restia oltretutto a migliorare la parlata francese). E come il bel lavoro di Rasmussen anche il settimo lungometraggio di Joana Hadjithomas e Khalīl Joreige, da oggi in sala con “Movies Inspired”, evita con intelligenza di mettersi in cattedra offrendo, invece, sprazzi di genuina commozione: osserva in silenzio, dal fondo del corridoio, quasi “inerme”, il pudore di chi non vuole più mostrare sé stesso oppure, schiacciato dagli orrori della Storia o dai capricci del Caso, è arrivato a cancellarsi, a “tradirsi” proprio come Maïa con i suoi più intimi sentimenti, scordando il calore, la spontaneità, il trasporto immaginifico per i viaggi, la Musica… e la Fotografia.
Verso quest’ultima (e, in forma neanche troppo velata, verso la seduzione stessa della Narrazione Fluviale, ipnotica e “nutriente” assai più delle micro-storie di Instagram) Memory Box può ben considerarsi un tributo di rara energia nella cinematografia recente. Attraverso gli occhi e le mani di Alex la lunga corrispondenza fra Liza e la madre Maïa, i ninnoli, le piccole “gioie” di tutta una vita tornano, infatti, a vibrare, a “sanguinare”, filando corruscamente come pellicola in un magico proiettore. Nonostante le indicibili tragedie, a visione ultimata ci si sente stranamente agili, leggeri. Vien voglia di riprendere la vecchia agenda telefonica, rilegata in pelle, trascurata chissà da quanto sul comodino, richiamare amiche e amici lontani… e danzare insieme a loro finché è possibile, simili a uccelli di fuoco, spiegare ancora le ali. La neve si scioglie, intanto, sulla pelle. La Guerra, il Tempo, l’Ipocrisia, l’Aberrazione… vadano in malora! Alla fine prevarranno, lo sappiamo. Ma non adesso. Non quando l’alba nascente su Beirut sembra realmente la prima alba e un visore a cristalli liquidi potrà sottrarre tale spettacolo all’oblio.
Efficaci immagini di Josée Deshaies (prezioso, abituale collaboratore di Bertrand Bonello) e, non ultima, una colonna sonora di saporita, cangiante miscela: alla partitura originale di Radwan Ghāzī Moumneh e Sciarbel Haber e così al moderno indie-rock dei Bunny Tylers si sovrappongono, inconfondibili, celebri voci della New Wave (Blondie, Killing Joke, Sigue Sigue Sputnik, The Stranglers, Visage).
Si consiglia, per un confronto, la visione del bellissimo (purtroppo inedito in Italia) Photographic Memory (2011) di Ross McElwee.