Quando vengono pubblicate le classifiche dei film più belli e importanti della storia del cinema, quasi sempre il primo posto è riservato a Quarto Potere (in originale, Citizen Kane) di Orson Welles. Al di là dell’attendibilità di tali graduatorie – possibile “costringere” la storia del cinema in una sottospecie di lista qualitativa? -, la presenza del film la dice lunga sull’unanime considerazione che si è guadagnato, negli anni, tra critici, studiosi e addetti ai lavori. Uscito nel 1941, l’esordio cinematografico di quello che all’epoca era considerato dal mondo dello showbiz americano un vero e proprio enfant prodige ha – di fatto – rivoluzionato l’immaginario cinematografico. L’ha fatto a livello visivo – come dimenticare, ad esempio, l’uso estremo della profondità di campo -, ma anche da un punto di vista squisitamente narrativo grazie a una sceneggiatura (premiata con l’Oscar, l’unico su 9 candidature) che Welles scrisse (?) insieme al più navigato Herman J. Mankiewicz, ex critico e drammaturgo teatrale prestato da anni all’industria cinematografica. Proprio alla stesura dello script e all’apporto dato da Mankiewicz al soggetto è dedicato il nuovo film di David Fincher, il biopic Mank, dal 4 dicembre disponibile su Netflix.
Ancora prima della sua realizzazione, Quarto Potere fu al centro di aspre polemiche. Da una parte la certezza, da parte degli addetti ai lavori, che il film non raccontasse una mera storia di finzione, ma prendesse spunto da una scomoda realtà (specie dal punto di vista dei produttori hollywoodiani); dall’altra, invece, innescò una diatriba sulla paternità della sceneggiatura. Se il primo aspetto si dissolse con il passare degli anni, divenendo col tempo una mera curiosità, il secondo tornò prepotentemente di moda all’inizio degli anni ’70 quando sul «New York Times» la critica Pauline Kael scrisse un saggio in cui sosteneva che lo script di quello che all’epoca come oggi era considerato un caposaldo della settima arte fosse da attribuire al solo Mankiewicz. Una tesi, quella della Kael, che il film Mank, scritto dal padre del regista Jack Fincher ad inizio anni ’90, sposa appieno, mostrando come il coinvolgimento di Welles – all’epoca della stesura della sceneggiatura impegnato nella pre-produzione di quello che sarebbe dovuto essere il suo primo film (poi mai realizzato), Cuore di Tenebra – fu tutto sommato relativo.
A seguito di un incidente automobilistico, lo sceneggiatore Herman Mankiewicz (Gary Oldman) è costretto a letto con una gamba ingessata. Una condizione che non gli impedisce comunque di lavorare alla stesura della sceneggiatura del primo film del giovane Orson Welles (Tom Burke), prodotto dalla RKO e al tempo ancora intitolato American. Per distoglierlo dal vizio dell’alcol, lo stesso Welles lo spedisce in un ranch sperduto nella regione californiana del Mojave, lontano dai riflettori di Hollywood e dalla famiglia, dove lo sceneggiatore è affiancato dalla graziosa dattilografa inglese Rita (Lilly Collins). Mentre Welles spinge per avere ultimata la sceneggiatura nel giro di 60 giorni, Mankiewicz ripercorre la sua turbinosa carriera, concentrandosi in particolare sull’incontro con il magnate della stampa William Rundolph Hearst (Charles Dance) e la sua giovane amante (nonché aspirante attrice, senza molto successo) Marion Davis (Amanda Seyfried), le cui figure furono per lui fonte di ispirazione per delineare i personaggi di Charles Foster Kane e della sua seconda moglie Dorothy, protagonisti di Quarto Potere.
Per troppo tempo, probabilmente, David Fincher è stato considerato un banale “regista di genere”; questo nonostante abbia sempre dimostrato, durante l’arco della sua carriera, di meritarsi lo status di autore cinematografico. Opere quali Seven, ma soprattutto Zodiac e The Social Network sono lì a dimostrarlo, senza dimenticare la serie Mindhunter, dove il “Fincher’s Touch” è ravvisabile al di là del pilot e degli altri due episodi della prima stagione (secondo e decimo) realizzati dallo stesso regista. Con Mank, però, Fincher sembra voler alzare la proverbiale asticella; e lo fa non solo puntando su un film intrinsecamente ambizioso, ma anche scegliendo di dialogare con un caposaldo della storia del cinema (per certi versi, un totem intoccabile), di omaggiare uno dei suoi autori (Mankiewicz naturalmente), nonché di confrontarsi con una realtà – quella della Hollywood tra anni ’30 e primi ’40 – segnata negativamente dalla crisi economica del ’29 e, al contempo, in procinto di vivere forse la più importante delle sue fasi evolutive: il passaggio dal muto al sonoro.
Che Mank sia un film legato indissolubilmente a Quarto Potere è innegabile. Non bisogna però ridurlo solo ed esclusivamente a questo. L’opera di Fincher dimostra fin dalle prime battute una complessità (concettuale ed estetica) che rischia di fagocitare lo spettatore meno preparato in materia di storia e critica del cinema. Adotta uno stile mutuato da quello che caratterizzava i film prodotti a Hollywood a cavallo tra Thirties e Fourties, scegliendo raramente di citare esplicitamente l’opera di Welles, ma comunque confrontandosi continuamente con essa (di fatto, Mankiewicz sta a Fincher come Kane sta a Welles).
Da un punto di vista stilistico, Fincher si affida a un’estetica dal rigore filologico, con tanto di adeguamento al lessico cinematografico di quegli anni, sia da un punto di vista prettamente visivo che squisitamente narrativo: la sontuosa fotografia in b/n di Erik Messerschmidt, l’utilizzo del cosiddetto “montaggio invisibile” tanto in voga nel periodo in cui uscì il film Welles, l’uso di transizioni visive elementari come la dissolvenza e l’effetto tendina, nonché l’utilizzo di quello che può essere considerato il più classico ed abusato “effetto speciale” dell’epoca, il trasparente; senza dimenticare il ricorso al flash-back, escamotage narrativo su cui, di fatto, si basa l’intero film (così come capitava in Quarto Potere) .
Scelte, quelle adottate da Fincher, che non danno mai l’impressione di essere un puro e “semplice” esercizio di stile, ma che al contrario appaiono funzionali non solo ad attuare quel dialogo con Quarto Potere e il cinema coevo di cui si diceva poc’anzi, ma anche (se non soprattutto) al racconto della doppia parabola – ascendente e discendente – che ha contraddistinto la carriera di Mankiewicz. Rispetto al film tv RKO 281 – La vera storia di Quarto potere di Benjamin Ross, che si focalizzava sul punto di vista di Welles, Mank relega il visionario cineasta sullo sfondo per fare emergere la figura borderline di uno sceneggiatore che, a differenza del suo regista in rampa di lancio, sta percorrendo gli ultimi metri di un viale del tramonto lungo il quale si è incamminato diversi anni prima.
È un po’ come se Fincher volesse liberare – quantomeno nella finzione cinematografica – Mankiewicz dell’ingombrante ombra di Orson Welles, non casualmente descritto dal film (con una certa veridicità) come una figura quasi mefistofelica, imponente, statuaria (sia fisicamente che vocalmente) ed amante del controllo. Spostare l’attenzione sullo sceneggiatore di Quarto Potere è funzionale a Fincher anche per raccontare l’Hollywood di quegli anni. Se infatti Welles stava muovendo i primi passi nel mondo del cinema, Mankiewicz era sbarcato ad Hollywood già negli anni ’20. Aveva vissuto non solo l’epoca d’oro del muto, ma anche quella più caotica post Grande Depressione, che Fincher racconta in maniera puntuale, senza ricorrere alla facile glorificazione ma, al contrario, mettendone in evidenza il lato oscuro.
Il critico cinematografico Luigi Chiarini, più o meno negli anni in cui uscì negli Stati Uniti Quarto Potere, scrisse: «Il film è un’arte, il cinema è un’industria». Dello stesso avviso sembra essere anche David Fincher, perché in Mank è come se convivessero due stati d’animo differenti nei confronti della Hollywood degli anni ’30: da una parte l’amore incondizionato nei confronti delle pellicole prodotte e, tutto sommato, degli artisti chiamati a realizzarle; dall’altro l’onestà di descrivere il dietro le quinte di una “fabbrica dei sogni” meno innocente di quanto vorrebbe apparire.
Così, se da un lato lo spettatore è introdotto all’affascinante e caleidoscopico universo hollywoodiano – con tanto di cameo di celebri personaggi dello showbiz dell’epoca: i produttori Louis B. Meyer, Irving Thalberg e David O. Selznick; gli sceneggiatori Ben Hecht e Charles MacArthur; gli attori John Barrymore e Shirley Temple -, dall’altro è indotto dallo stesso film a confrontarsi anche con il contesto storico-politico-sociale nel quale ha operato Mankiewicz e dal quale egli stesso ha tratto ispirazione (anche indirettamente) per il soggetto di Quarto Potere: i postumi della crisi economica, il germogliare di ideali antisocialisti progenitori di quella “Caccia alle streghe” che negli anni ’50 avrebbe messo al bando persino lo stesso Welles (costretto a riparare in Europa) e che alla metà degli anni ’30 contribuirono ad allontanare lo stesso Mankiewicz da Hollywood, nonché l’ascesa del magnate della stampa Hearst nel mondo del cinema (usato sovente a scopi personali e/o propagandistici).
Un film denso, Mank, che affronta svariati temi, ma senza dare mai l’impressione di perdere la bussola. Percorre la propria strada con sicurezza, affidandosi a una sceneggiatura di ferro (chissà se, negli anni, Fincher figlio l’ha rimaneggiata; e chissà se ha avuto un ruolo se non nella stesura, quantomeno nella revisione pre shooting, lo sceneggiatore Eric Roth, accreditato in veste di produttore esecutivo), e puntando su una confezione elegante che rifugge ogni deriva manierista apparendo sempre funzionale – come si è già detto – al racconto. A questi elementi si deve aggiungere, senza dubbio, anche l’apporto di un cast stellare. Se Gary Oldman si candida per un’altra notte da protagonista ai prossimi Premi Oscar – possibile ci sia qualcuno capace di mettersi tra lui e la sua seconda statuetta? – una menzione d’onore meritano anche Amanda Seyfried (mai così brava), Lilly Collins (in certi momenti sembra davvero espressione del cinema di quegli anni) e soprattutto Tom Burke, il cui lavoro sulla caratterizzazione di Orson Welles (specie per quanto riguarda il timbro di voce) è da applausi a scena aperta. Qualcuno ha gridato al capolavoro. Forse non aveva tutti i torti.