L’oscurità, nell’epoca che stiamo vivendo, scende rapida, adagiandosi ovunque, indelebile come fuliggine. Se gli occhi cercano di abituarsi all’assenza di luce il corpo non cessa di barcollare di stanchezza, di paura; talmente inerte da restare raggomitolato nel letto, oppure a terra. Per giorni, settimane, mesi, anche anni a volte. Senza destarsi, senza mai reagire. Perché, allora, stanotte, anzi la “mia” notte (Ma Nuit è, infatti, il titolo del film in esame), dovrebbe essere differente dalle altre? Non sarà forse “quella” notte? La notte in cui ogni domanda trova risposta, ogni lacrima viene asciugata, e neppure la morte ha più dominio perché… le cose di ieri sono passate? Il collegamento con l’Apocalisse di Giovanni (21:4) viene spontaneo e non sarà l’unico che lo spettatore attento stabilirà nel corso della proiezione. Visceralmente letteraria ma mai pretenziosa, non priva di sana leggerezza, mesta eppure “contagiosa” nei suoi legittimi desideri, tutti adolescenziali, di bianche nuvole da afferrare con la mano e stringersele al petto, l’opera prima di Antoinette Boulat (oltre 26 anni di esperienza come direttrice di casting, maturati a fianco di registi quali Benoît Jacquot, François Ozon e, non ultimo, Manuel Pradal al suo folgorante esordio Maria della Baia degli Angeli), accolta da “No.Mad Entertainment” nel proprio listino, inaugura la programmazione di sala del 2023 con tutta la sensibilità del giovane cinema d’Oltralpe nonché il suo resistente legame con i maestri del passato.
“Baby alone in Babylone, noyée sous les flots / De tes larmes et le charme, de l’avenue du crépuscule”… di sicuro Marion (Lou Lampros) non conosce la canzone di Jane Birkin ma, da quando è mancata la sorella Alice, cinque anni fa, attraversa le stesse “notti metalliche”, con l’odierna Parigi, e non Los Angeles, sullo sfondo. Neolaureata in attesa del risultato di un colloquio per un posto da commessa, questa fragile, scontrosa creatura, aspirante attrice, è avara di sorrisi, tranne quando una farfalla monarca entra di colpo nella sua stanza: pronta con la fotocamera, Marion cattura il magico istante. Come suggerisce l’episodio, la nostra vive attraverso l’obiettivo o, meglio, non vive il mondo per ciò che è ma già con l’idea di raccontarlo, ripensarlo. “Purificarlo”, in un certo senso. «Mi piacciono le nature morte» ripete spesso e i suoi scatti condividono con il genere pittorico proprio la capacità di “sentire” la vita nascosta, rivelatrice delle cose, solo apparentemente inanimate, siano esse i manichini, involontariamente “sinistri”, di una bottega d’abiti marocchina nel quartiere Enfants-Rouges o certi squarci e dettagli architettonici dell’Île Saint-Louis.
«Me ne frego di quel che non si può rifiutare!», «Perché volete stare tutti con qualcuno?» …altre frasi che ben delineano il carattere di Marion, opposto alle “compagne d’avventura” Justine (Carmen Kassovitz) e Calypso (Lucie Saada). Nomi equivalenti a macigni: occhi da principessa persiana, la prima è la più audace, anche sessualmente, della combriccola ma pure la più sola e, sulla falsariga dell’omonima eroina di De Sade, subisce tradimento su tradimento, soffocandone le pene fin dove il caos della discoteca lo permette; la seconda è ancora minorenne, già bella come la ninfa omerica, orfana però del calore e dei profumi dell’isola di Ogigia: oggi si riduce a lanciare ai coetanei sciocche sfide seduta sui gradini presso il canal Saint-Martin, a bighellonare su e giù per i tram, “bloccando” su Skype patetici molestatori («Farà sul serio?» si chiede, illudendosi che possa essere il ragazzo giusto)… basta, però, che Marion apra bocca, recitando ad alta voce monologhi di sua invenzione, e Justine e Calypso restano incantate, sorridono, si commuovono: potenza del teatro, seducente più di ogni effimera moda.
Una piccola gemma visceralmente letteraria
Volti paonazzi, tribù confinata in riserve travestite da dance-club, esercito in ritirata da una guerra che non è neppure esplosa… sono, invece, gli altri amici (o presunti tali) di Marion. «Perché alla gente interessa tanto l’eternità? E come la riempirebbe, poi?» borbottano stremati dopo ore di musica e luci stroboscopiche. Stufa, la protagonista fugge via, cercando quegli ultimi angoli di silenzio che i parigini paiono aver dimenticato. Cadrebbe vittima di due bastardi se non intervenisse Alex (Tom Mercier), così almeno dice di chiamarsi il giovanotto, misterioso e un po’ goffo, la cui apparizione fa sì che la pellicola della Boulat si raffini nel piccolo gioiello che è, dialogando a distanza nientemeno che con Quattro notti di un sognatore (‘71) di Robert Bresson, liberamente ispirato, come qualcuno forse ricorderà, al racconto Le notti bianche (1848) di Dostoevskij.
Diversamente dai “predecessori” Marthe (Isabelle Weingarten) e Jacques (Guillaume des Forêts), per Marion ed Alex, i sognatori di Ma nuit, la scoperta di una segreta quanto profonda affinità avviene nell’arco di un’unica notte, senza corrompersi, senza alcun risvolto ossessivo o il fardello del “razionale” risveglio diurno: tutto sembra pienamente, giocosamente concesso alla Giovinezza in queste brevi ore senza sole né, tuttavia, angoscia, costellate di tuffi (non troppo igienici, a dire il vero) ai bordi del Quai de la Tournelle, di pensieri sull’Origine, il Perché di ogni cosa (quand’è che abbiamo cominciato a coltivare le ambizioni sbagliate? Il Paradiso è uno stato della mente o è un luogo reale a cui, un tempo, appartenevamo?), perfino qualche impietoso giudizio sull’Occidente. E se l’omaggio dell’esordiente Boulat a Le notti bianche (e alla moderna “riscrittura parigina” di Bresson) risulta evidente, più velato ma non meno incisivo è il riferimento ad una seconda grande opera dello scrittore russo, il romanzo L’idiota (1869): la sequenza della camminata sul Pont Bleu (Rue Riquet) lungo il quale Marion (insopportabilmente dilaniata fra l’abbandonarsi ai propri dolori e la speranza che chi le vuole un poco di bene la stia cercando e possa soccorrerla) ha l’impressione allucinatoria di essere inseguita (tensione culminante nello shock per un’esplosione, bomba o fuga di gas, a pochi passi da lei) non può non far pensare, infatti, alla camminata del principe Myškin (cfr. parte seconda, cap. 5).
«Non sono mai tranquilla, mattina o sera. Non riesco più a funzionare, a vivere, a parlare, a uscire, a fare dei progetti per il futuro. A svegliarmi, ad affrontare la vita giorno per giorno. A non sembrare pazza agli occhi della gente» così Marion confessa ad una dottoressa del servizio notturno (cameo di Maya Sansa). Non scorderemo tanto presto le sue parole: le abbiamo pensate più e più volte, è inutile nasconderlo, ma non abbiamo mai avuto il coraggio di pronunciarle. Mentre nell’iride già si sono impresse le scene di Barbabé d’Hauteville e Laure Montagné come pure il lavoro sulle immagini di Laetitia de Montalembert: debitori anch’essi del lavoro di Pierre Charbonnier e Pierre Lhomme per Quattro notti di un sognatore, hanno fatto scendere su Parigi una spettrale “rugiada pietroburghese” e la ricorrente presenza degli hippies, di un cantante di fado e la sua orchestrina che caratterizzava il film di Bresson cede qui il posto a comitive munite di mini-casse bluetooth… e all’evocativa partitura di Nicolas Errèra (fra i brani migliori: “Rue de Sully”, “Le Pont Bleu”) che dimostra di aver fatto propria la lezione degli album Timewind di Klaus Schulze e Apollo di Daniel Lanois e i fratelli Eno.
Un avvio che stenta a coinvolgere, un monocorde doppiaggio italiano (ragioni scusabili, purtroppo assai frequenti: pochi turni, pochi soldi): le due sole pecche di 85’ toccanti minuti.