Il mito inquietante della bambola che uccide, innocente gioco d’infanzia che assume all’improvviso dei contorni distorti e pericolosi, attraversa come un leitmotiv non solo la letteratura (come dimenticare l’automa inquietante protagonista di un racconto di Hoffmann?) ma soprattutto il cinema: da Chucky passando per Annabelle, senza tralasciare la storia (vera e macabra) di Robert, il pupazzo che ha ispirato molte storie dell’orrore moderno e contemporaneo, l’innocenza dei giocattoli si è trasformata in un concetto relativo dalle ambigue sfumature e dai risvolti pericolosi.
Ma M3GAN, il nuovo horror nato dalla creatività del regista Gerard Johnstone e della sceneggiatrice Akela Cooper (Malignant) e prodotto da James Wan (l’universo di The Conjuring) e Jason Blum (fondatore della Blumhouse), rappresenta un’evoluzione nella mitologia del giocattolo assassino: niente possessioni, demoni, strani riti vudù e killer vendicativi, questa volta è la tecnologia a minacciare la quiete familiare degli affetti, sovvertendo le tre leggi della robotica di Asimov in un horror capace di suscitare delle ciniche risate, in un vero e proprio cortocircuito con la black comedy.
Il film, che approderà nelle sale italiane dal 4 gennaio, è incentrato su M3GAN, una meraviglia di intelligenza artificiale, una bambola a grandezza naturale programmata per essere la più grande compagna dei bambini e la più grande alleata dei genitori. Progettata da Gemma (Allison Williams, vista in Scappa – Get Out), brillante robotica di un’azienda di giocattoli, il sofisticato automa è in grado di ascoltare, guardare e imparare, diventando amica e insegnante, compagna di giochi e protettrice del bambino a cui è legata. Quando Gemma diventa improvvisamente la tutrice della nipote orfana di 8 anni, Cady, si sente però insicura e impreparata a diventare genitore. Sottoposta a forti pressioni sul lavoro, Gemma decide così di abbinare il suo prototipo M3GAN con Cady nel tentativo di risolvere entrambi i problemi: una decisione che avrà conseguenze inimmaginabili.
Grazie alla capacità di fondere insieme commedia nera (e dissacrante), horror, thriller (per via della suspense indotta) e una leggera riflessione sociologica sull’impatto che le moderne tecnologie hanno nella nostra quotidianità, M3GAN si presenta agli occhi degli spettatori come un piacevole divertissement, un prodotto destinato a un intrattenimento intelligente e di genere non privo di una cinica (e divertita) critica sociale. La domanda che sembra porsi Johnstone è: quali sono i confini della tecnologia? Qual è il limite invalicabile della robotica, oltre il quale si rischia di infrangere ogni codice etico e civile?
Quali sono i confini della tecnologia?
Gemma crea M3GAN, un automa intelligente e senziente con le fattezze di una bambina, per dare alla nipote orfana Cady una compagna di giochi in grado di sostituirla giorno dopo giorno, ricoprendo le mansioni più intime e quotidiane. La bambola, che si configura quindi più come una moderna “dama di compagnia” che un semplice giocattolo sofisticato, finisce per creare un profondo legame psichico con la piccola.
Quest’ultima, sul piano psicoanalitico, proietta sulla sua nuova compagna i suoi desideri e le sue fantasie: esattamente come nel transfert freudiano, M3GAN diventa la confidente, la migliore amica, la madre surrogata – accomodante, amorevole e paziente – che la ragazzina ha appena perso. E Gemma, prototipo della millennial nerd sulla cresta dell’onda di una sfolgorante carriera, non riesce a sviluppare quello stesso grado di empatia con la nipotina, inadatta a ricoprire l’inedito ruolo di madre/sostegno morale che dovrebbe ricoprire (soprattutto agli occhi delle convenzioni e delle aspettative borghesi che la circondano).
M3GAN dimostra ancora una volta come l’horror sia il genere ideale per analizzare la realtà, perché esattamente come una lente deformante proietta, sullo schermo d’argento, le paure, le contraddizioni e i dubbi inconsci che dilaniano la società contemporanea, fino al punto di esorcizzarli attraverso una risata dissacrante e liberatoria. E se nel film l’innocenza dell’infanzia viene preservata, a pagarne lo scotto – in una sorta di atipico transfert – è il giocattolo, incarnazione di uno slittamento semantico, simbolo di una tecnologia fagocitante che ormai domina le nostre esistenze, con il rischio di depauperarle del fattore umano, quanto dell’imprevedibile fallibilità – e fragilità – dell’essere umano stesso.
I fili delle interessanti riflessioni tessute all’interno del film si dipanano in una narrazione per immagini che sfrutta il meccanismo del jumpscare e la scrittura della suspense per tenere alta l’attenzione (e la tensione) dello spettatore, mentre i toni delle premesse horror si stemperano molto volentieri nelle risate soprattutto davanti a situazioni grottesche o surreali, paradossi macabri che – come sosteneva Sigmund Freud – esorcizzano la realtà e le sue idiosincrasie (anche se distorte) attraverso il riso stesso.