Due solitudini si incontrano per caso; ma forse quest’ultimo non esiste e a manovrare i fili delle vite umane è la Fortuna, che i greci identificavano con la Tyche e con un destino super partes al quale non sfuggiva nessuno, nemmeno gli dèi stessi. E un analogo senso – tragico e struggente – sembra aleggiare tra gli sguardi e le intenzioni che legano Irene e Michele, i due protagonisti del film L’uomo sulla strada, opera prima del regista Gianluca Mangiasciutti che vede protagonisti Lorenzo Richelmy (Il talento del Calabrone) e Aurora Giovinazzo (Freaks Out), pronti ad approdare nelle sale nostrane dal 7 dicembre.
Irene ha 8 anni quando assiste, come unica testimone, alla morte del padre per mano di un pirata della strada che scappa via, senza prestare soccorso. Perseguitata dal senso di colpa per non riuscire a ricordare il volto dell’assassino, Irene diventa un’adolescente ribelle e introversa con l’unica ossessione di farsi giustizia ad ogni costo. Dopo aver abbandonato la scuola, trova lavoro nella fabbrica di proprietà del glaciale e affascinante Michele, che è proprio l’uomo che era al volante dell’auto. La ragazza sembra non riconoscerlo, lui invece non ha dubbi: Michele prova da subito un forte istinto di protezione verso la giovane, che ben presto si trasforma in amore. Irene, completamente all’oscuro della verità, inizia ad aprirsi e a confidarsi proprio con l’uomo a cui sta dando la caccia, finché non avviene qualcosa di completamente inaspettato.
Tragedia, rabbia, vendetta; ma anche senso di colpa, punizione, giustizia e redenzione. Archetipi narrativi che attraversano L’uomo sulla strada avvicinando il thriller-sentimentale all’ineluttabilità della tragedia greca, l’unica – fin dall’alba dei tempi – in grado di scavare nelle complessità più oscure dell’animo umano, svelandone epiche debolezze e fragili speranze. Un destino crudele lega, attraverso un fil rouge, le esistenze di Irene e Michele, due solitudini che cercano di proteggersi (parafrasando Rilke) nonostante gli orrori del passato e le ferite tragiche le cui ombre arrivano fin nel presente, influenzandolo. “Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi”, diceva David Foster Wallace, e ognuno cerca l’altra meta di sé (o della “famosa” mela) nell’altro, fino a specchiarsi nelle debolezze e negli spettri che lo tormentano, riconoscendosi in quel riflesso tanto da volersi gettare al suo interno, attraversandolo come l’Alice di Lewis Caroll per vedere cosa c’è oltre.
Una rapsodia dei sentimenti contrastanti
Nell’approccio alla rielaborazione del trauma e del senso di colpa, Mangiasciutti sembra guardare ai canoni psicanalitici del noir anni ‘40, da Fritz Lang ad Alfred Hitchcock, nonostante l’intento di partenza sia quello di tratteggiare sullo schermo (e sulla carta) una storia d’amore tra due persone distanti (e distinte). Ma il risultato finale è più complesso e stratificato, sensibile e teso; il meccanismo perfetto del thriller viene contaminato dalla delicatezza del sentimento di stampo indie, che anche nell’estetica sembra guardare ai modelli americani: neon, strade perdute, auto in sosta in solitari parcheggi e tavole calde diventano i “non luoghi” dove si muovono Irene e Michele, le due solitudini che si stanno cercando, rincorrendosi quasi, senza sapere di essere oggetto delle attenzioni ineluttabili del destino. E proprio il passato, esattamente come il fato nella Quinta di Beethoven, bussa alle loro porte per risvegliare le coscienze e per concedere una seconda buona occasione capace di riannodare i fili e sciogliere, infine, il bandolo di un’intricata matassa.
L’uomo sulla strada affida la propria difficile riflessione su crimini, misfatti e redenzioni agli sguardi nervosi e innamorati degli eccellenti protagonisti Richelmy e Giovinazzo: il terzo occhio, quello meccanico della macchina da presa, li segue scrutando tanto nei silenzi quanto nelle ombre, conducendo lo spettatore fin nei loro cuori di tenebra macchiati da colpe e marchiati da decisioni sbagliate; cuori in tempesta che non riescono a trovare un approdo sicuro, se non scrutando fino in fondo nell’occhio cieco di baratri e abissi. Una storia complessa e quanto mai attuale, che si muove – sul piano dello storytelling – dal racconto della crudele realtà (che troppo spesso riporta fatti di cronaca nera a base di pirati e vittime della strada) fino ad appropriarsi dei linguaggi del genere, dalla suspense del thriller al gioco escatologico alla base del noir, fino alla dolcezza – malinconica e struggente – dei drama sentimentali di stampo indie.
E L’uomo sulla strada, snodandosi attraverso archi narrativi frammentari e spezzati, orchestra una rapsodia dei sentimenti contrastanti, dei legami spezzati da forze superiori che sembrano ormai bloccati nel passato, ma attendono solo un barlume di luce – capace di filtrare attraverso le crepe – per andare avanti, incontro al futuro. Eppure tra passato e futuro si colloca il presente, una no-man’s-land che Irene e Michele abitano con difficoltà, preda dei propri vizi di forma emotivi, intrappolati nelle tragiche contraddizioni che li hanno feriti e marchiati a fuoco. E ancora una volta lo stile di Mangiasciutti, eclettico ed elegante, affida alle immagini del film la narrazione di questo dramma tragico, proiettando negli occhi e nei dettagli dei volti dei suoi protagonisti colpe e speranze.
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