L’Uomo del Labirinto è il titolo del nuovo film diretto da Donato Carrisi che adatta ancora una volta, per il grande schermo, un suo romanzo (dopo il successo de La Ragazza nella Nebbia). Davanti alla macchina da presa torna ancora una volta Toni Servillo che divide la scena con un’icona di Hollywood come Dustin Hoffman. Insieme a loro anche Valentina Bellè, Vinicio Marchioni e Caterina Shulha.
Bruno Genko è un investigatore privato. Quindici anni prima è stato ingaggiato dai genitori di Samantha per ritrovare la figlia. Adesso che la ragazza è riapparsa, sente di avere un debito con lei e proverà a catturare l’uomo senza volto che l’ha rapita. Ma quella di Genko è anche una lotta contro il tempo, perché un medico gli ha detto che gli restano due mesi di vita. E, per uno scherzo del destino, quei due mesi sono scaduti proprio nel giorno in cui Samantha è tornata indietro dal buio.
L’Uomo del Labirinto è, come ha dichiarato Carrisi stesso durante la conferenza stampa, un omaggio dal sapore vintage al cinema thriller mainstream degli anni ’90: una grande produzione, attori di un certo calibro, una messinscena suntuosa che evoca suggestioni ed atmosfere distorte e oniriche dal sapore lynchiano. Il film è una sorta di discesa nel cuore di tenebra dell’incubo, un perturbante “passo a due” (voci) di uomini immortalati nella loro personale ricerca dell’orrore.
E l’orrore trova la propria incarnazione in un’inquietante figura antropomorfa, ancora una volta figlia degli incubi di David Lynch, con una gigantesca testa di coniglio dagli occhi rossi a forma di cuore: un bianconiglio diabolico che trascina i malcapitati di turno nel profondo della propria macabra tana; e quest’ultima si configura come un labirinto, un inestricabile dedalo che riflette le prigioni della mente nelle quali siamo ingabbiati tutti, a partire dai personaggi protagonisti della vicenda fino agli spettatori.
Eppure, nonostante queste suggestive quanto inquietanti premesse di partenza impreziosite dalle prove interpretative di Servillo, Marchioni e ovviamente Hoffman, L’Uomo del Labirinto sembra ancora ben lontano dalla complessità – stilistica e formale – dei grandi cult anni ’90 che lo hanno ispirato: piuttosto, ricorda, con le sue atmosfere, certi film di genere anni ’70 che hanno caratterizzato la nostra industria audiovisiva, film ambientati in non-luoghi dal sapore “esotico” che mescolavano abilmente suggestioni straniere ed italiane, idiosincrasie ed incongruenze creando prodotti di puro intrattenimento.
Il complesso intreccio sul quale si costruisce la vicenda narrata (per immagini) da Carrisi è fin troppo articolata e di difficile fruizione; le idiosincrasie che dovrebbero rappresentarne la forza in realtà finiscono per confondere e spiazzare lo spettatore, alla disperata ricerca di stabili coordinate spazio-temporali dalle quali partire per decifrare il girato filmico. Alterato tale asse aristotelico fondamentale, il film si dipana tra atmosfere suggestive ma fin troppo opulente, rimanendo invischiato in una spirale di barocchismi – visivi e sintattici – che rallentano la portata delle potenti metafore sullo spettatore.
Sarà complice la difficoltà di adattare, da un medium all’altro, un’opera letteraria; sarà anche per via della complessità stessa insita nella letteratura, che arricchisce il mondo immaginario del lettore ma fin troppo spesso si scontra con le logiche del ritmo e del tempo del grande schermo, ma L’Uomo del Labirinto si allontana notevolmente dalla tagliente natura asciutta che aveva reso La Ragazza nella Nebbia un vero gioiello; qui, al contrario, sembra trionfare un’incosciente paura dell’horror vacui da colmare ad ogni costo, finendo per confondere, spiazzare, ingabbiare lo spettatore nel labirinto di una confezione estetizzante per distoglierlo dalle fragili lacune di una storia fragile e confusa.
A parte le difficoltà e le fragilità mostrate da questo gigante dai piedi d’argilla, ad affascinare rimane comunque l’idea stessa del dedalico incrocio ingarbugliato di strade, dei tanti piani e livelli d’interpretazione – e di visione – che s’intersecano sullo schermo; e lo spettatore, coinvolto nelle indagini chandleriane condotte da Genko – detective per caso o per volere del destino – non può fare a meno di notare come il risultato finale somigli a una passeggiata macabra tra i gironi danteschi, dove ad ogni livello l’anima dell’uomo si avvicina tanto alla dannazione eterna quanto alla redenzione.