Costruire una piattaforma in mezzo al mare, a pochi chilometri di distanza dalla riviera romagnola, con mezzi di fortuna. Una volta ultimata, volerla far riconoscere, dal Consiglio d’Europa e dalle Nazioni Unite, in quanto micronazione indipendente con proprie leggi, governo, lingua, moneta, francobolli, ecc. Sembra una storia incredibile, ai confini della realtà, eppure è quanto accadde in Italia tra il 1958 e il 1969, quando un giovane ingegnere bolognese, Giorgio Rosa, realizzò una specie di “isola” con ambizioni di indipendenza (vedere per credere su Wikipedia). Una vicenda che, dopo essere stata dimenticata per molti anni, ha ora ispirato un film: L’incredibile storia de L’Isola delle Rose, diretto da Sidney Sibilia (la trilogia Smetto quando voglio), interpretato da Elio Germano, prodotto dalla Grøenlandia di Matteo Rovere (Romulus) e distribuito dal 9 dicembre su Netflix.
Che cosa spinse Giorgio Rosa a costruire la sua isola è ancora oggi un piccolo mistero. Una semplice boutade, forse? O magari il tentativo – come sospettato dal Governo italiano all’epoca – di dribblare le leggi statali e creare una sorta di paradiso fiscale con finalità turistiche? E se invece, visti anche i tempi, centrasse l’idea utopica di costruire una nuova realtà sociale votata all’uguaglianza e alla libertà, contro le stringenti morse del potere costituito? In fin dei conti, benché iniziato alla fine degli anni ’50, quindi in tempi non sospetti, il progetto di Rosa – guarda un po’ il caso – si concretizzò una decina di anni dopo (con tanto di indipendenza promulgata il 1° maggio del 1968).
Probabilmente l’esperienza di quella che in esperanto (idioma scelto dall’ingegnere per la sua “creatura”) fu denominata Insulo de la Rozoj fu tutte e tre le cose. O almeno è quanto fa intendere Sydney Sibilia nel suo film, sceneggiato a quattro mani con Francesca Manieri. A ben vedere, però, la scelta di ambientare la vicenda dalla primavera del 1968 all’inverno dello stesso anno non può essere vista solo come un’esigenza narrativa, ma anche (se non soprattutto) come un indizio circa la volontà del regista di rileggere la vicenda da un punto di vista più “politico”, mostrando come quella specifica vicenda fu effettivamente figlia del proprio tempo.
Giorgio (Elio Germano) si è appena laureato in ingegneria presso l’università di Bologna. Il padre (Andrea Pennacchi) lo vorrebbe fare entrare nella fabbrica dove lavora e vederlo finalmente sistemato. Ma il ragazzo ha altre ambizioni, e soprattutto vuole dimostrare all’ex fidanzata Gabriella (Matilde De Angelis), promettente avvocato con specializzazione in diritto internazionale, che non è un ingenuo Peter Pan tendente al nerd, ma è invece destinato a grandi imprese. Dopo una serie di esperienze lavorative non proprio esaltanti, ecco finalmente l’idea: costruire un nuovo mondo, senza leggi, dove tutti possono essere accolti e possono vivere secondo le proprie regole. Un’utopia che Giorgio vuole rendere concreta a tutti costi. Così, insieme all’amico Maurizio (Leonardo Lidi) costruisce una piattaforma al largo di Rimini, in acque internazionali. L’eco dell’impresa comincia ad attrarre curiosi, turisti, soci in affari – tra i quali il Pr donnaiolo W.R. Neumann (Tom Wlashiha) -, ma anche ad insospettire il governo italiano e i suoi rappresentati: in primis il presidente del consiglio Giovanni Leone (Luca Zingaretti) e il ministro Franco Restivo (Fabrizio Bentivoglio), entrambi democristiani, sulle cui decisioni incombe anche il giudizio della Santa Sede.
Da una parte il singolo individuo e la sua voglia d’autoaffermazione – e magari anche di rivalsa -, dall’altra il potere costituito che è disposto a tutto pur di far valere le proprie ragioni. Un tema caro, questo, al regista salentino Sidney Sibilia, in qualche modo già in nuce nella sua trilogia dedicata a un gruppo di laureati sull’orlo della disoccupazione che mette le proprie conoscenze al servizio della criminalità (con risvolti a dir poco comici) spinto da un sentimento di rivincita nei confronti di un mondo dal quale i propri componenti sono stati vigliaccamente esclusi, e che ritorna (in maniera forse ancor più definita) anche ne L’incredibile storia de L’Isola delle Rose. In fin dei conti, c’è poi così tanta differenza tra il Giorgio Rosa impersonato da Elio Germano e, ad esempio, il ricercatore precario Pietro Zinni di Edoardo Leo, protagonista dei film precedenti di Sibilia? A ben vedere, no. Entrambi i personaggi sono degli idealisti, dei sognatori, ma anche – a loro modo – degli emarginati. La scelta che si para davanti ad entrambi è la medesima: subire il sistema, oppure provare a combatterlo (anche con mezzi non propriamente leciti)?

Sia Rosa che Zinni propendono per la seconda opzione, anche se sono mossi da ragioni diverse ed operano in contesti socio-politico-culturali assai differenti. E questo non è un dettaglio. L’Italia in cui vive Giorgio Rosa è un paese austero pieno zeppo di regole e ideali che solo un ventennio prima erano stati sinonimo di libertà (la Costituzione italiana, di cui furono firmatari gli stessi Leone e Restivo, nel film descritti come bonari antagonisti di Rosa, venne redatta nel 1947), ma che alla fine dei ’60 fu travolto da principi più funzionali ai nuovi tempi che stavano cominciando a germogliare (non solo in Italia, naturalmente). Che il ’68 fu – come quasi sempre d’altronde – una rivoluzione borghese è un dato di fatto. Che il ribellismo che lo contraddistinse, poi effettivamente tradito da coloro che furono in prima linea («Partono tutti incendiari e fieri, ma quando arrivano sono tutti pompieri», canterà qualche anno dopo con acume Rino Gaetano), portò comunque ad osservare il mondo da una prospettiva diversa è una constatazione difficilmente contestabile.
Il ’68 mise in discussione la società del tempo: un atteggiamento critico non così dissimile da quello che, nel film di Sibilia, contraddistingue anche il progetto apparentemente idealista di Giorgio Rosa. Che poi nella realtà storica l’ingegnere bolognese non sia stato mosso da chissà quali idee utopiche è un altro discorso. Ciò che conta è che nella trasposizione cinematografica della sua storia sia evidente l’interesse a rileggerne la parabola parallelamente allo scoppiare dei primi movimenti studenteschi. Se infatti inizialmente L’incredibile storia de L’Isola delle Rose sembra dare soprattutto peso alla volontà del singolo di crearsi il proprio posto nel mondo, ben presto la creazione dell’isola assume i connotati di una ribellione nei confronti di una società oppressiva e di uno Stato-padrone capace di imporre regole senza dare la possibilità ai singoli cittadini di poterle effettivamente mettere in discussione (da questo punto di vista – e qui forse sta il pregio principale del film – è notevole il cortocircuito che si viene a creare relativamente al concetto di libertà e alla giustezza delle leggi che ne dovrebbero preservare il diritto, esemplificato nella battuta di Gabriella: «Le leggi cambiano. Ciò che è giusto rimane per sempre»).
Di fatto, L’incredibile storia de L’Isola delle Rose descrive la vicenda della creazione dell’isola come uno dei tanti volti del ’68 (che, come sappiamo, non fu un movimento univoco, bensì una tensione tra forze e ideali eterogenei). Paradossalmente però, nel momento stesso in cui il film chiama in causa il celebre fenomeno socio-culturale che caratterizzò quegli anni, cerca al contempo di discostarsene, compiendo il classico gesto del tirare il sasso nello stagno e, al contempo, nascondere la mano la dietro la schiena. Così, i moti sessantottini vengono enunciati sì, e pure posti in parallelo rispetto alla costruzione dell’isola e agli ideali (più o meno) utopici alla base della sua ideazione, ma non vengono mai affrontati in maniera cosciente.
Il film inizia come una sorta di “romanzo di formazione” in cui l’eroe di turno – in questo caso il giovane ingegnere – deve trovare il proprio posto nel mondo e, in assenza di valide alternative, decide di costruirselo a sua immagine e somiglianza. Quando però l’opera di Sibilia allarga lo sguardo e comincia a considerare anche tutto ciò che c’è di esterno alla figura del protagonista, gli elementi chiamati in causa sono molteplici: confronto tra nuove e vecchie generazioni; l’immagine di una classe politica che ha fatto ormai il suo tempo, incapace di restare al passo con i tempi, ma anche ambigua e profondamente legata forze esterne che ne influenzano le scelte (leggi: il Vaticano); l’emergere di un sentimento di emancipazione che coinvolge più livelli: culturale, sociale, sessuale.
Tutto farebbe supporre che il film voglia cercare di riflettere su quegli anni attraverso la singolare (e, al contempo, significativa) storia di Giorgio Rosa e del suo sogno, invece L’incredibile storia de L’Isola delle Rose sembra propendere per un atteggiamento – lasciateci passare il termine – democristiano, limitandosi a sfruttare tutte le tensioni accumulate lungo il corso della narrazione per fini puramente comico-spettacolari, utilizzando un registro macchiettistico che non ha mai l’ambizione di sublimarsi nel grottesco, ma rimane superficialmente motivato da mere esigenze spettacolari (vedere per credere le caratterizzazioni di Leone e Restivo offerte da Zingaretti e Bentivoglio, certamente divertenti ma un po’ fini a se stesse).
Non che L’incredibile storia de L’Isola delle Rose sia un film brutto. Dà però la sensazione di essere un film sbagliato. Godibile a livello epidermico, ma con palesi limiti a livello concettuale. È un po’ come se Sibilia avesse avuto paura ad uscire dalla sua comfort zone, a spingersi verso i confini di una commedia all’italiana più vicina alla sua forma più pura (quella storica degli anni ’50 e ’60) che non a quella annacquata a cui il cinema nostrano ci ha abituato (salvo rari casi) negli ultimi anni. Così, la sensazione una volta concluso il film è quella di essersi trovati al cospetto di un’opera certamente coraggiosa – che ha anche il merito di aver riscoperto una storia incredibile – ma che a conti fatti rappresenta un’occasione persa.