“È più importante quello che abbiamo dentro o fuori?”, domanda Adriana, la protagonista de L’immensità, all’insegnante durante una lezione sulle cellule, quelle minuscole componenti di cui siamo fatti tutti noi. Ma a volte, ciò che ci costituisce come esseri umani non per forza rispecchia quello che sentiamo.
Torna dopo undici anni dal successo di Terraferma, Emanuele Crialese, stavolta con un film più intimo che riflette alcuni aspetti autobiografici del regista. Il corpo è il filo conduttore di tutto L’immensità. Quel corpo che col passare del tempo sta cambiando e che sempre più mostra quell’identità che Adriana non riconosce. La ragazza non accetta quello che la natura le ha dato; non si spoglia mai e anzi, copre il più possibile. Le sue bambole galleggiano nell’acqua senza gli arti, come un puzzle che non si riesce a completare perché mancano i pezzi.
L’ostia, il corpo di Cristo offerto in sacrificio che Adriana mangia più volte nel corso del film, come se la ragazza sperasse in un miracolo; e più volte, guardando il cielo, grida come se cercasse un segno, forse da Dio stesso, come se quest’ultimo la spiasse (numerose sono le riprese dall’alto). Il cibo che dà nutrimento al corpo ma che qui o diventa uno sfogo per riempire dei vuoti oppure un rifiuto dell’autorità paterna. La tavola che dovrebbe essere elemento di condivisione, ma che in realtà porta in superficie le disfunzioni della famiglia. Lo sprofondare di Adriana in una vasca piena d’acqua, come battesimo a nuova creatura.
Ne L’immensità ritorna il tema dell’attraversare i confini di Terraferma, dal momento che la protagonista attraversa un campo di canne per raggiungere una comunità di zingari, dove forse trova più solidarietà e vicinanza della sua famiglia naturale: sono infatti gli unici che la chiamano Andrea e accolgono la sua identità maschile, fatta eccezione per la madre.
L’immensità, un doloroso viaggio nel passato
Penelope Cruz torna nuovamente a ricoprire il ruolo del genitore comprensivo, affettuoso, che deve proteggere il più debole. Si distacca dai giudizi che gli altri hanno nei confronti di sua figlia, perché di fatto non si sente di far parte del mondo degli adulti. Clara non ha mai schiaffeggiato i figli e vorrebbe giocare per tutto il tempo, perché gli adulti non la divertono, risultando di fatto una bambina mai veramente cresciuta.
Quella madre che per Adriana è una creatura fragile, da proteggere da chi vuole approfittarsi di lei e che viene in qualche modo idolatrata, arrivando perfino a sostituire il viso di Patty Pravo in un sogno della protagonista. Quell’intesa e quella cura per l’altra che le accumuna e che porta le due a una comprensione e a una solidarietà, in un mondo che rifiuta i diversi.
La macchina da presa è addosso ad Adriana, interpretata dalla giovane Luana Giuliani, perfettamente nel ruolo. Ma quella che supera tutti è sicuramente la Cruz, che domina la scena: addirittura, sembra che in alcuni momenti lo sguardo sia più su Clara che sulla protagonista e sul suo percorso di transizione (unica vera pecca del film).
L’immensità è un doloroso viaggio nel passato di Crialese, che allo stesso tempo è in grado di riflettere su tematiche universali, come del resto ha sempre fatto tutta la filmografia del regista.
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