Articolo a cura di Matteo Illiano
Gli alieni al cinema non sono mai stati tanto diversi. A pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, National Geographic ha presentato il suo primo prodotto seriale con la miniserie Marte; Ridley Scott è pronto a tornare al suo insuperabile Alien (Alien: Covenant è in uscita il prossimo 19 maggio); e non dimentichiamoci di Arrival, il meraviglioso film di Denis Villeneuve che finge di parlare degli alieni mentre costruisce una metafora sulla comunicazione. In questo immenso spazio cinematografico, il regista Daniel Espinosa confeziona il suo viaggio nell’universo con Life – Non Oltrepassare il Limite.
Alla Stazione Spaziale Internazionale arriva un campione cellulare proveniente da Marte; queste poche cellule testimoniano per la prima volta l’esistenza di una vita oltre quella terrestre. Dopo essere riusciti a rianimarlo, con il passare dei giorni, l’essere alieno, chiamato Calvin, comincia a crescere e sviluppare un’intelligenza che va oltre ogni aspettativa. La fuga di Calvin dal laboratorio sarà l’inizio di una lotta per la sopravvivenza senza esclusione di colpi.
Life – Non Oltrepassare il Limite è costruito su delle atmosfere da horror fantascientifico, una sorta di impreziosito b-movie che si concede una forma e soprattutto un budget da vero blockbuster. La pellicola si apre e si chiude con due sequenze molto simili a Gravity di Alfonso Cuaròn dal quale Espinosa riprende l’idea della location unica: questa volta, però, la stazione spaziale non appare così claustrofobica, ma anzi è in continua evoluzione.
Questo aspetto dipende dalla scelta di rendere lo sviluppo della storia come un puro survival movie: il risultato è un film visivo e dinamico in cui la tensione riesce a essere buona a tempi alterni. A stupirci positivamente è tutto il reparto sonoro sempre articolato e funzionale: ogni rumore o motivo musicale riesce a trasmettere tutto quello che è sfuggito a una regia più convenzionale e con pochi guizzi artistici.
Nonostante Life sia assolutamente interessante da guardare, la sceneggiatura di Rhett Reese e Paul Wernick si rifà a un colosso come Alien ma ne perde tutto il phatos: i dialoghi privano dei giusti spazi i personaggi al punto che non riusciamo a capire chiaramente se si tratti di un titolo corale o meno.
Le buone interpretazione di Jake Gyllenhaal, Rebecca Ferguson e Ryan Reynolds non sono sufficienti a renderci partecipi delle loro terribili disavventure spaziali; conosciamo tanti minuscoli dettagli che vengono collocati alla rinfusa senza una logica di fondo. Un discorso sulla sopravvivenza prova a far elevare la pellicola a toni inconciliabili con il resto, ma esso viene interrotto brutalmente dall’arrivo di Calvin, l’essere che possiede, oltre a una forma originale, anche la psicologia più chiara e approfondita.
Alien impiegava quasi due ore prima di mostrare la sua specie aliena in tutta la sua mostruosità; Calvin, al contrario, adora stare davanti alla macchina da presa e, dati i numerosi primi piani, rischiava di rubare il posto al bel Ryan Reynolds nel manifesto ufficiale.